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Chirurgia protesica dell’anca

Chirurgia protesica dell’anca

 

La chirurgia protesica dell’anca permette di intervenire nei casi più avanzati di degenerazione dell’articolazione per i quali sono controindicati o non hanno avuto successo i trattamenti conservativi.

Che cos’è la chirurgia protesica dell’anca?

L’intervento di protesi totale d’anca consiste nella sostituzione completa dell’articolazione utilizzando delle protesi in metallo. Attualmente le protesi maggiormente utilizzate sono costruite in lega di titanio, ma possono anche venire cementate all’osso protesi di differenti leghe metalliche.

Il “cuore” della protesi, cioè lo snodo sottoposto al movimento (e quindi all’usura) non è in titanio e può essere composto da diversi materiali: leghe di cromo-cobalto, ceramica, oppure accoppiamenti di questi materiali con il polietilene.

Ad oggi tutte le protesi sono modulari, cioè formate da parti distinte che vengono assemblate al momento per adattarsi meglio all’anatomia del singolo paziente ed evitano, qualora ve ne fosse la necessità, di sostituire tutto l’impianto. In particolare nell’impiantare la protesi in un paziente giovane si mira a evitare l’utilizzo del cemento e si cerca di preservare il più possibile il tessuto osseo, preferendo protesi “a incastro” appositamente progettate.

Un’alternativa alla sostituzione totale consiste nel rivestimento della testa del femore con la protesi senza asportarla. Tale soluzione è però indicata solo in una stretta minoranza di casi.

Nel giovane si pone molta attenzione al posizionamento di protesi di piccole dimensioni, al maniacale approccio nel posizionamento delle componenti per garantire la perfetta riproduzione dei parametri biologici articolari, a ridurre i tempi di usura dell’impianto, e alla scelta di materiali che permettano lunga durata.

Come funziona la chirurgia protesica dell’anca?

Prima dell’intervento viene eseguita e valutata una radiografia per programmare la fase preoperatoria. In questo momento il chirurgo sceglie la protesi.

L’intervento viene praticato in genere in anestesia peridurale, ma in relazione al caso è facoltà dell’anestesista la scelta della soluzione migliore. La tecnica chirurgica si avvale anche dell’approccio mini-invasivo con tagli cutanei piccoli, riducendo al massimo l’impatto sui muscoli.

La via di accesso all’anca è la postero-laterale che ha il vantaggio di risparmiare gli abduttori dell’anca (muscoli piccolo e medio gluteo), ma in alcuni casi particolari il chirurgo si avvale di altre vie di accesso.

L’intervento è seguito da una breve degenza in ospedale (in media 15 giorni): durante i primi due giorni di riposo a letto in posizione supina con cuscino divaricatore fra le gambe vengono eseguiti esercizi di mobilizzazione passiva e attiva. In caso di necessità il paziente può stare in posizione eretta più precocemente (un giorno). È importante nella fase postoperatoria un relativo “isolamento” del paziente per evitare infezioni.

Quali sono i vantaggi della chirurgia protesica dell’anca?

L’impianto di una protesi d’anca è considerata un’alternativa a cui ricorrere quando non sono possibili i trattamenti conservativi o quando questi ultimi non hanno avuto successo. L’affermarsi di materiali tecnologicamente sempre più avanzati e procedure chirurgiche innovative hanno considerevolmente migliorato i risultati di questo tipo di intervento, i cui punti deboli restano il rischio di rottura o di lussazione della protesi, la permanenza della cicatrice.

Quali pazienti possono effettuare la chirurgia protesica dell’anca?

Il paziente candidato alla chirurgica protesica viene attentamente selezionato in base ad alcuni specifici parametri: entità del fenomeno degenerativo, età, impatto sulla qualità della vita, condizioni di salute.

Le protesi di rivestimento della testa femorale vengono preferite in pazienti giovani, specie se di sesso maschile, non affetti da allergie e in assenza di necrosi della testa femorale o deformità articolari (morbo di Perthes, epifisiolisi, esiti traumatici dell’anca, conflitto femoro-acetabolare, displasia dell’anca, difetti di antiversione dell’acetabolo o di torsione del collo femorale).

Nel caso di trattamenti chirurgici con tecnica mini-invasiva il paziente selezionato non deve essere in sovrappeso, non deve avere masse muscolari non eccessivamente sviluppate, non deve aver avuto episodi recenti di trombosi venosa profonda, non deve avere scompensi cardiocircolatori.

La chirurgia protesica dell’anca è dolorosa o pericolosa?

L’intervento viene praticato normalmente in anestesia epidurale. Il paziente non avverte dolore durante l’intervento. Fatta eccezione per le prime fasi del decorso postoperatorio in cui la ferita chirurgica unita agli effetti dell’anestesia può procurare dolore e malessere al paziente, il dolore tende a scomparire già nei primi giorni. La permanenza del dolore all’anca è un’ipotesi rara.

I rischi legati all’intervento chirurgico includono: infezioni, trombosi venosa profonda, emorragia, osteonecrosi, danni vascolari e neurologici, i rischi collegati all’anestesia.

Con l’utilizzo delle tecniche mini-invasive si esegue sempre il posizionamento di una protesi completa di tipo tradizionale riducendo al minimo il trauma chirurgico, con una minor durata del ricovero e tempi di recupero più rapidi.

Sono previste norme di preparazione?

È importante, prima dell’intervento, continuare a svolgere un’attività fisica costante compatibile con il dolore. Circa un mese prima dell’intervento vengono eseguiti tutti gli accertamenti preliminari. In alcuni casi selezionati dall’anestesista si procede con il predeposito del sangue, vale a dire con il prelievo in diversi momenti del sangue del paziente per riutilizzarlo durante l’operazione.

Una settimana prima dell’intervento viene chiesto di sospendere alcuni farmaci che impediscono la normale coagulazione del sangue come l’aspirina. In vista dell’operazione è necessario munirsi di vestiti comodi, ad esempio una tuta, calzature con la suola di gomma e tacco basso, e di stampelle.

Il giorno dell’intervento bisogna essere a digiuno dalla mezzanotte precedente.

Dopo l’intervento sono necessarie calze elastiche antitrombo.

Follow up

È necessario seguire la profilassi antitrombotica con Eparina per 30-40 giorni dopo l’intervento.

Prima dell’intervento il paziente viene istruito sugli esercizi per il recupero articolare e muscolare che verranno riproposti durante la fase di riabilitazione e che in un secondo momento il paziente potrà eseguire da solo anche a casa.

La rimozione dei punti viene solitamente eseguita dopo due settimane. Al paziente viene indicata la data del primo controllo e successivamente dovrà eseguire una radiografia e una visita ortopedica ogni 1 o 2 anni per verificare la funzionalità dell’articolazione e l’integrità della protesi.

 

Impianto protesi dell’anca

Impianto protesi dell’anca

 

Prima dell’intervento viene valutata la radiografia e programmata la pianificazione preoperatoria. E’ in questa fase che il chirurgo sceglie definitivamente la protesi.

L’intervento viene praticato normalmente in anestesia peridurale, ma in relazione al caso è facoltà dell’anestesista la scelta della soluzione migliore. La tecnica chirurgica si avvale anche dell’approccio mini-invasivo, con tagli cutanei piccoli e massimo rispetto dei muscoli.

La via di accesso all’anca è la postero-laterale che ha il vantaggio di risparmiare gli abduttori dell’anca (muscoli piccolo e medio gluteo), ma in alcuni casi particolari il chirurgo si avvale di altre vie di accesso.

L’intervento è seguito da una breve degenza in ospedale (in media 10 giorni): durante i primi due giorni di riposo a letto in posizione supina con cuscino divaricatore fra le gambe, vengono eseguiti esercizi di mobilizzazione passiva ed attiva. In caso di necessità il paziente può stare in posizione eretta più precocemente (1 giorno). È importante nella fase postoperatoria un relativo “isolamento” del paziente per evitare infezioni; ciò vuol dire visite rare e programmate dei parenti.

Onde d’urto contro le calcificazioni

Onde d’urto contro le calcificazioni

 

La terapia con onde d’urto non viene applicata per “rompere o frantumare” le calcificazioni di tendini, legamenti ed articolazioni, ma per risolvere l’infiammazione e la degenerazione tissutale di cui la calcificazione può essere la conseguenza. In alcuni casi, dopo il trattamento con onde d’urto le calcificazioni possono scomparire, si tratta però di un fenomeno che può richiedere molti mesi e soprattutto si verifica non per frantumazione ma per azione biochimica di scioglimento, legata alla riattivazione della circolazione localmente a livello microscopico.

Il trattamento con onde d’urto in ambito muscolo-scheletrico può quindi essere eseguito indipendentemente dalla presenza o meno di calcificazioni. Ad oggi inoltre non vi sono dati ed esperienze scientifiche che supportino l’indicazione di eseguire onde d’urto, a scopo preventivo, in presenza di calcificazioni tendinee e in pazienti asintomatici (cioè che non lamentano dolore o fastidio).

Onde d’urto modulate per la cura di patologie infiammatorie in fase acuta

Onde d’urto modulate per la cura di patologie infiammatorie in fase acuta

 

Onde d’urto con energie molto basse e modulabili per piccoli incrementi ad ogni livello consentono di trattare anche le patologie infiammatorie in fase acuta (cioè di più recente insorgenza e già di per sé stesse molto dolorose). Questo grazie alla possibilità di utilizzare tecnologie avanzate e di ultimissima generazione.

Questo offre un indubbio vantaggio terapeutico per i pazienti: contrariamente a quanto si possa pensare, le patologie in fase acuta sono le più indicate per questo tipo di cura, poiché il paziente trae maggior giovamento ed in tempi più rapidi, con più veloce recupero e ripristino della funzione articolare.

 

Onde d’urto per la cura delle fratture

Onde d’urto per la cura delle fratture

 

Le onde d’urto a più alta energia sono in grado di riattivare i processi di guarigione dell’osso (osteogenesi riparativa) favorendo ed accelerando la guarigione delle fratture che stentano a saldarsi (pseudoartrosi e ritardi di consolidazione).

Questa metodica risulta estremamente efficace soprattutto per quei pazienti che non hanno ottenuto successo con altre terapie conservative (mediche, farmacologiche e/o fisioterapiche), o addirittura con l’intervento chirurgico.

L’evoluzione delle tecnologie ha permesso di disporre di macchinari (i litotritori) sempre più sofisticati, in grado di colpire l’area interessata in modo estremamente preciso. Questo consente di lavorare con estrema selettività anche su aree molto piccole ed in prossimità di strutture anatomiche importanti (quali vasi e nervi).

 

 

Onde d’urto per la rigenerazione dei tessuti

Onde d’urto per la rigenerazione dei tessuti

 

Mentre in alcuni casi le onde d’urto vengono utilizzate a scopo puramente “palliativo”, per via delle loro proprietà antidolorifiche, in altri casi le onde d’urto focali hanno un vero e proprio effetto “curativo” (guariscono cioè dall’infiammazione e/o rigenerano i tessuti).

Negli anni più recenti infatti, oltre a chiarirsi le modalità di azione antiinfiammatoria, è stata scoperta anche la capacità delle onde d’urto di promuovere la formazione di nuovi piccoli vasi sanguigni (neoangiogenesi), azione indispensabile per la rigenerazione dei tessuti, con possibilità di applicazione pratica nel trattamento delle ulcere cutanee di varia origine e patologie affini (es. ferite “difficili” e perdite di sostanza post-traumatiche).

Nel caso della rigenerazione tissutale, l’applicazione dell’onda d’urto serve ad innescare un processo curativo che si completerà nel corso delle settimane successive. Il risultato è simile a quello ottenuto con un intervento chirurgico, ma con l’indubbio vantaggio di ricevere un trattamento non invasivo.

Onde d’urto: litotritore con applicatore “defocalizzato”

Onde d’urto: litotritore con applicatore “defocalizzato”

 

Oltre alla cura con onde d’urto di tendini e muscoli, questo litotritore permette anche di trattare ulcere, “ferite difficili” e cicatrici chirurgiche dolorose.

È dotato di generatore elettroidraulico di ultima generazione, ed essendo di dimensioni contenute e manovrabile manualmente, consente di muoversi su regioni anatomiche anche ampie, adattandosi alle diverse superfici corporee e trattando eventualmente anche tutti i punti dolorosi, compresi anche i cosiddetti “trigger points”, ovvero punti di particolare concentrazione del dolore.

Inoltre, cambiando il tipo di applicatore (con emissione di onde d’urto defocalizzate), consente di eseguire i diversi tipi di trattamento per stimolare la rigenerazione dei tessuti cutanei (ulcere, “ferite difficili” e cicatrici dolorose).

 

Onde d’urto: litotritore con generatore elettromagnetico

Onde d’urto: litotritore con generatore elettromagnetico

 

Indicato per i trattamenti con onde d’urto sia ad alta energia sull’osso sia a più bassa energia, eseguiti sui “tessuti molli” e in particolare sui tendini, si tratta di un litotritore dotato di un sistema di puntamento di precisione, collegato ad un braccio articolato e movibile in parte automaticamente. Questo consente di puntare il bersaglio da trattare con estrema precisione (es. una pseudoartrosi), aumentando le probabilità di successo della terapia.

Il riconoscimento del “bersaglio” anatomico da trattare può essere eseguito sia tramite controllo ampliscopico (un breve “flash” radiografico), sia tramite controllo ecografico, praticato simultaneamente ed in linea con la direzione di emissione del “fronte” di onde d’urto.

Questo tipo di controllo ecografico, detto “in-line” (poiché il fascio ecografico degli ultrasuoni utile per riconoscere la regione anatomica da trattare è parallelo ed interno alla sorgente di produzione ed avanzamento delle onde d’urto stesse), consente all’operatore di visualizzare istante per istante, con precisione, la posizione di applicazione delle onde d’urto stesse.

 

Riabilitazione da rottura del legamento crociato anteriore

Riabilitazione da rottura del legamento crociato anteriore

 

Dopo la chirurgia di riparazione del legamento crociato anteriore, è essenziale seguire un programma di riabilitazione mirato per assicurare il migliore recupero funzionale del ginocchio. Il recupero articolare e muscolare deve essere impostato e controllato periodicamente dal chirurgo ortopedico che, a sua volta, si avvale dell’ausilio di un fisioterapista. La fase della riabilitazione è delicata perché il paziente deve eseguire una serie di esercizi per rinforzare la muscolatura e recuperare movimento e coordinazione, senza però provocare sovraccarichi che potrebbero allentare o rompere il neo-legamento.

Normalmente il programma riabilitativo dura tre – quattro mesi. Successivamente è consigliabile continuare un programma di esercizi per mantenere la tonicità muscolare e recuperare la coordinazione motoria.

La ripresa sportiva è consigliabile solo dopo il completo recupero articolare e muscolare e, di norma, non è consentita prima di sei mesi dopo l’intervento chirurgico.

Trattamento per il dito a scatto

Trattamento per il dito a scatto

 

Lo scopo del trattamento previsto per la tenosinovite stenosante è di eliminare lo scatto o il blocco del dito e di ripristinarne il normale movimento. Il gonfiore intorno al tendine flessore e alla sua guaina devono essere ridotti per consentire un migliore scorrimento nella puleggia. La somministrazione di antiinfiammatori e l’applicazione di tutori possono essere indicati per ridurre l’infiammazione del tendine. Il trattamento può anche includere il cambiamento delle attività manuali.

Se i trattamenti non chirurgici non migliorano i sintomi può essere indicato un intervento in day hospital. Lo scopo della chirurgia è di aprire la prima puleggia in modo che il tendine possa scorrere liberamente. Il movimento attivo del dito generalmente inizia subito dopo l’intervento e l’uso normale della mano può essere raggiunto in breve tempo.

Trattamento per l’artrosi del ginocchio

Trattamento per l’artrosi del ginocchio

 

A seconda del o dei versanti coinvolti dalla patologia, sono proponibili terapie chirurgiche differenti. Negli ultimi 15 anni sono state sviluppate delle protesi di ginocchio cosiddette monocompartimentali, che hanno lo scopo di rivestire solo il “settore” danneggiato. Si tratta di protesi di piccole dimensioni, dette anche mini-invasive perché impiantabili attraverso incisioni di pochi centimetri. In questo modo si limita anche la perdita di sangue durante l’intervento, riducendo la necessità di trasfusioni. Abitualmente i pazienti sono in grado di alzarsi e camminare, con l’aiuto di 2 stampelle, già il giorno successivo all’intervento. Dopo un breve periodo di riabilitazione, i pazienti sono in grado di riprendere le normali attività, per esempio guidare l’automobile e, poco dopo, anche di praticare sport a basso impatto (nuoto, bicicletta, golf). Nel caso invece in cui l’usura coinvolga più di un compartimento, si parla di artrosi bi- o tricompartimentale. In questi casi la terapia chirurgica richiede l’utilizzo di protesi articolari diverse per forma e dimensioni, le cosiddette protesi “totali”. Quando viene impiantata una protesi totale il recupero post- operatorio è lievemente più lento, ma la ripresa delle comuni attività quotidiane avviene comunque entro 45 giorni dall’intervento. In conclusione, negli ultimi tempi sono stati compiuti notevoli progressi nella comprensione e nel trattamento della patologia artrosica del ginocchio. Siamo ora in grado con terapie mediche, chirurgiche e riabilitative adeguate, di migliorare notevolmente la qualità della vita dei pazienti colpiti da questa patologia ed anche di svolgere una prevenzione nei casi diagnosticati precocemente.

Cardiopatia ischemica

Cardiopatia ischemica

 

La cardiopatia ischemica include tutte le condizioni in cui si verifica un insufficiente apporto di sangue e di ossigeno al muscolo cardiaco. La causa più frequente è l’aterosclerosi, caratterizzata dalla presenza di placche ad elevato contenuto di colesterolo (ateromi) nelle arterie coronarie, capaci di ostruire o ridurre il flusso di sangue. La cardiopatia ischemica presenta manifestazioni cliniche differenti quali l’angina pectoris (stabile e instabile) e l’infarto del miocardio.

 

Che cos’è la cardiopatia ischemica?

L’attività del cuore è caratterizzata da un equilibrio tra il fabbisogno di ossigeno del muscolo cardiaco e il flusso di sangue. Il cuore, infatti, è un organo che utilizza grandi quantità di ossigeno per il proprio metabolismo. In presenza di patologie o condizioni che alterano questo equilibrio si può generare una riduzione acuta o cronica, permanente o transitoria, dell’apporto di ossigeno (ipossia o anossia) e degli altri nutrienti, che può a sua volta danneggiare il muscolo cardiaco, riducendone la funzionalità (insufficienza cardiaca). L’ostruzione improvvisa delle coronarie può condurre all’infarto miocardico con un elevato rischio di arresto circolatorio e decesso. Va ricordato che la patologia aterosclerotica e la cardiopatia ischemica sono la principale causa di morte nel mondo Occidentale.

 

Quali sono le cause della cardiopatia ischemica?

Si distinguono cause di cardiopatia ischemica e fattori predisponenti, meglio noti come fattori di rischio cardiovascolare.

Le cause più frequenti di cardiopatia ischemica sono:

aterosclerosi, malattia che coinvolge le pareti dei vasi sanguigni attraverso la formazione di placche a contenuto lipidico o fibroso, che evolvono verso la progressiva riduzione del lume o verso l’ulcerazione e la formazione brusca di un coagulo sovrastante il punto di lesione. L’aterosclerosi delle arterie coronarie è la causa più frequente di angina e infarto miocardico.

spasmi coronarici, una condizione relativamente poco frequente che porta a una contrazione (spasmo) improvvisa e temporanea dei muscoli della parete dell’arteria, con riduzione o ostruzione del flusso di sangue.

I fattori di rischio cardiovascolare sono:

ipercolesterolemia o aumento dei livelli di colesterolo nel sangue, che innalza proporzionalmente il rischio di aterosclerosi.

-ipertensione arteriosa: la “pressione alta” o ipertensione arteriosa può avere varie cause e interessa una larga fetta della popolazione di età superiore ai 50 anni. Si associa a una aumentata probabilità di sviluppare l’aterosclerosi e le sue complicanze.

diabete, che unita a ipertensione e ipercolesterolemia compone la sindrome metabolica, un quadro ad alto rischio di ischemia cardiaca.

-stress

-vita sedentaria

-obesità

-fumo

-predisposizione genetica

 

Quali sono i sintomi della cardiopatia ischemica?

-dolore toracico (angina pectoris o dolore anginoso), con pressione e dolore al petto, che può irradiarsi al collo e alla mascella. Può manifestarsi anche al braccio sinistro oppure alla bocca dello stomaco, confondendosi talvolta con sintomi analoghi a una banale pesantezza addominale.

-sudorazione

-mancanza di respiro

-svenimento

-nausea e vomito

 

Come prevenire la cardiopatia ischemica?

La prevenzione è l’arma più importante contro la cardiopatia ischemica. Si basa su uno stile di vita salutare, lo stesso che deve essere seguito da chi è stato colpito da problemi cardiaci. Prima di tutto è necessario evitare il fumo e seguire una dieta povera di grassi e ricca di frutta, verdura e cereali integrali. Bisognerebbe limitare o minimizzare le occasioni di stress psicofisico e privilegiare un’attività fisica aerobica regolare. Vanno poi corretti, ove possibile, tutti i fattori di rischio cardiovascolare.

Diagnosi

La diagnosi di cardiopatia ischemica richiede esami strumentali che includono:

-elettrocardiogramma (ECG): registra l’attività elettrica del cuore e consente di individuare la presenza di anomalie suggestive per ischemia miocardica. L’Holter è il monitoraggio prolungato nelle 24 ore dell’ECG: nel caso di sospetta angina consente di registrare l’elettrocardiogramma nella vita di tutti i giorni e soprattutto in quei contesti in cui il paziente riferisce di avere la sintomatologia.

-il test da sforzo: l’esame consiste nella registrazione di un elettrocardiogramma mentre il paziente compie un esercizio fisico, generalmente camminando su un tapis roulant o pedalando su una cyclette. Il test viene condotto secondo protocolli predefiniti, volti a valutare al meglio la riserva funzionale del circolo coronarico. Viene interrotto alla comparsa di sintomi, alterazioni ECG o pressione elevata o una volta raggiunta l’attività massimale per quel paziente in assenza di segni e sintomi indicativi di ischemia.

-scintigrafia miocardica: è una metodica utilizzata per valutare l’ischemia da sforzo in pazienti il cui solo elettrocardiogramma non sarebbe adeguatamente interpretabile. Anche in questo caso Il paziente può eseguire l’esame con cyclette o tapis roulant. Al monitoraggio elettrocardiografico viene affiancata la somministrazione endovenosa di un tracciante radioattivo che si localizza nel tessuto cardiaco se l’afflusso di sangue al cuore è regolare. Il tracciante radioattivo emana un segnale che può essere rilevato da un’apposita apparecchiatura, la Gamma-camera. Somministrando il radiotracciante in condizioni di riposo e all’apice dell’attività si valuta l’eventuale comparsa di mancanza di segnale in quest’ultima condizione, segno che il paziente manifesta un’ischemia da sforzo. L’esame consente non solo di diagnosticare la presenza di ischemia ma anche di fornire un’informazione più accurata sulla sua sede e sull’estensione. Lo stesso esame può essere effettuato producendo l’ipotetica ischemia con un farmaco ad hoc e non con l’esercizio fisico vero e proprio.

-ecocardiogramma: è un test di immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio dispensa un fascio di ultrasuoni al torace, attraverso una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). Le immagini in tempo reale possono essere raccolte anche durante l’esecuzione di un test da sforzo, fornendo in quel caso informazioni preziose sulla capacità del cuore di contrarsi correttamente in corso di attività fisica. Analogamente alla scintigrafia anche l’ecocardiogramma può essere registrato dopo aver somministrato al paziente un farmaco che può scatenare un’eventuale ischemia (ECO-stress), permettendone la diagnosi e la valutazione di estensione e sede.

-coronografia o angiografia coronarica: è l’esame che consente di visualizzare le coronarie attraverso l’iniezione di mezzo di contrasto radiopaco al loro interno. L’esame viene effettuato in un’apposita sala radiologica, nella quale sono rispettate tutte le misure di sterilità necessarie. L’iniezione del contrasto nelle coronarie presuppone il cateterismo selettivo di un’arteria e l’avanzamento di un catetere fino all’origine dei vasi esplorati.

-TAC cuore o tomografia computerizzata (TC): è un esame diagnostico per immagini atto a  valutare la presenza di calcificazioni dovute a placche aterosclerotiche nei vasi coronarici, indicatore indiretto di un rischio elevato di patologia coronarica maggiore. Con gli apparecchi attuali, somministrando anche mezzo di contrasto per via endovenosa, e’ possibile ricostruire il lume coronarico e ottenere informazioni su eventuali restringimenti critici.

-risonanza Magnetica Nucleare (RMN): produce immagini dettagliate della struttura del cuore e dei vasi sanguigni attraverso la registrazione di un segnale emesso dalle cellule sottoposte ad un intenso campo magnetico. Permette di valutare la morfologia delle strutture del cuore, la funzione cardiaca ed eventuali alterazioni del movimento di parete secondarie a ischemia indotta farmacologicamente (RMN cardiaca da stress).

 

Trattamenti

Il trattamento della cardiopatia ischemica è finalizzato a ripristinare il flusso di sangue diretto al muscolo cardiaco. Ciò si può ottenere con farmaci specifici oppure con un intervento di rivascolarizzazione coronarica.

Il trattamento farmacologico deve essere proposto dal cardiologo in collaborazione con il medico curante e può prevedere, a seconda del profilo di rischio del paziente o della gravità dei segni clinici:

-nitrati (nitroglicerina): è una categoria di farmaci adoperata per favorire la vasodilatazione delle coronarie, permettendo così un aumento del flusso di sangue verso il cuore.

-aspirina: studi scientifici hanno appurato che l’aspirina riduce la probabilità di infarto. L’azione antiaggregante di questo farmaco previene infatti la formazione di trombi. La stessa azione viene svolta anche da altri farmaci antipiastrinici (ticlopidina, clopidogrel, prasugrel e ticagrelor), che possono essere somministrati in alternativa o in associazione all’aspirina stessa, secondo le diverse condizioni cliniche.

-beta-bloccanti: rallentano il battito cardiaco e abbassano la pressione sanguigna contribuendo in questo modo a ridurre il lavoro del cuore e quindi anche del suo fabbisogno di ossigeno.

-atatine: farmaci per il controllo del colesterolo che ne limitano la produzione e l’accumulo sulle pareti delle arterie, rallentando lo sviluppo o la progressione dell’aterosclerosi.

-calcio-antagonisti: hanno un’azione di vasodilatazione sulle coronarie che consente di aumentare il flusso di sangue verso il cuore.

In presenza di alcune forme di cardiopatia ischemica può rendersi necessaria la soluzione interventistica, che include diverse opzioni:

-angioplastica coronarica percutanea, un intervento che prevede l’inserimento nel lume della coronaria, in corso di angiografia, di un piccolo pallone solitamente associato ad una struttura metallica a maglie (stent), che viene gonfiato ed espanso in corrispondenza del restringimento dell’arteria. Questa procedura migliora il flusso di sangue a valle, riducendo o eliminando i sintomi e l’ischemia.

-bypass coronarico, un intervento chirurgico che prevede il confezionamento di condotti vascolari (di origine venosa o arteriosa) in grado di “bypassare” il punto di restringimento delle coronarie, facendo pertanto comunicare direttamente la porzione a monte con quella a valle della stenosi. L’intervento viene effettuato con diverse tecniche operatorie, con il paziente in anestesia generale e in molte circostanze con il supporto della circolazione extra-corporea.

 

Infarto del miocardio

Infarto del miocardio

 

L’infarto è la necrosi di un tessuto o di un organo che non ricevono un adeguato apporto di sangue e ossigeno dalla circolazione arteriosa. Con il termine di infarto miocardico si intende la necrosi di una parte del muscolo cardiaco a seguito dell’ostruzione di una delle coronarie, arterie deputate alla sua irrorazione.

 

Come si manifesta?

L’infarto miocardico si può manifestare a riposo, dopo un’emozione intensa, durante uno sforzo fisico rilevante o quando lo sforzo è già terminato. Il suo esordio clinico è brusco ed è in prevalenza caratterizzato da sintomi tipici, che sono quindi facilmente identificabili nella maggior parte dei casi. E’ una malattia associata ad elevata mortalità se non adeguatamente trattata, che richiede l’attivazione del sistema di soccorso urgente sul territorio (118 o 112) e l’arrivo del paziente presso un ospedale dotato di tutte le potenzialità di trattamento della malattia, nel più breve tempo possibile. Le complicanze dell’infarto in fase acuta possono essere:

-lo shock, con grave prostrazione del paziente, bassa pressione arteriosa, tachicardia ed estremità fredde e umide a causa della vasta estensione dell’area di necrosi

-l’edema polmonare acuto, con grave mancanza di respiro a riposo

-le aritmie, alcune delle quali potenzialmente fatali

-l’ischemia di altri organi, per la scarsa capacità del cuore di svolgere la propria azione di pompa vitale per la circolazione del sangue.

 

Quali sono le cause dell’infarto del miocardio?

L’infarto miocardico è prodotto dall’occlusione parziale o totale di un’arteria coronarica. Questo avviene per la formazione di un coagulo (o trombo) su una delle lesioni aterosclerotiche che possono essere presenti sulla parete vascolare e che sono a stretto contatto con il lume interno. Non è ad oggi nota ne’ la causa dell’aterosclerosi ne’ della formazione improvvisa di un coagulo sulla placca coronarica: sono state avanzate diverse ipotesi tra le quali l’infiammazione dei vasi di varia natura e l’infezione da parte di germi molto diffusi nei paesi occidentali.

In rari casi l’infarto è la conseguenza di una malformazione coronarica (con restringimento del lume e formazione comunque di un trombo) o dello scollamento tra i foglietti della parete coronarica (dissezione) che porta quello interno a sporgere nel lume restringendolo in modo rilevante e predisponendolo alla chiusura totale (anche in questo caso per trombo o per compressione meccanica). Sono state descritte negli ultimi anni forme di infarto cardiaco che si manifestano in assenza di malattia coronarica e con un interessamento prevalente dell’apice del cuore.

La sindrome di Takotsubo è un infarto miocardico dell’apice che esordisce dopo un intenso stress emotivo e che colpisce prevalentemente le donne. E’ caratterizzata da una fase iniziale in cui la porzione di muscolo cardiaco che non si contrae può essere abbastanza estesa, coinvolgendo l’apice e i segmenti intermedi, con tendenziale buon recupero della contrattilità a distanza. Le coronarie sono indenni da restringimenti o da occlusioni. Il cuore, osservato all’ecocardiogramma, tende ad assumere un aspetto che ricorda il cestello utilizzato dai pescatori in Giappone, da cui il nome della sindrome che è stato proposto dai ricercatori giapponesi che l’hanno descritta per primi.

L’infarto resta anche oggi una malattia mortale. La mortalità è tanto maggiore quanto più tardivo è l’accesso del paziente con infarto miocardico acuto ad un ospedale nel quale possa essere trattato adeguatamente. E’ opportuno ricorrere al 118 in tutti i casi in cui si sospetti la presenza di un infarto cardiaco per iniziare al più presto il monitoraggio del paziente, trattare tempestivamente le complicanze fatali che possono verificarsi nelle prime ore (aritmie gravi come la fibrillazione ventricolare) e cominciare a somministrare i primi farmaci efficaci sul coagulo o trombo coronarico.

Quali sono i sintomi?

I sintomi più frequenti sono il dolore al petto, la sudorazione fredda profusa, uno stato di malessere profondo, la nausea e il vomito. Il dolore, definito anche precordiale (prossimo alla sede intratoracica del cuore) o retrosternale (il paziente lo attribuisce allo spazio toracico che sta dietro allo sterno) si può irradiare ai vasi del collo e alla gola, alla mandibola (soprattutto ramo sinistro), alla porzione di colonna vertebrale che sta fra le due scapole, agli arti superiori (il sinistro e’ coinvolto più spesso del destro) e allo stomaco.

Spesso il dolore al petto compare per brevi intervalli temporali e si risolve spontaneamente, prima di manifestarsi in modo più duraturo, con il corollario dei sintomi già descritto. Quando il dolore al petto, spontaneo o da sforzo, si manifesta per una durata massima di 30 minuti si parla di angina pectoris: una condizione di ischemia del cuore che non arriva ad essere così prolungata da provocare necrosi. Ci sono pazienti che lamentano l’angina pectoris da ore o giorni a mesi o anni prima di un vero e proprio infarto.

L’infarto miocardico è un’esperienza soggettiva: non tutte le persone che ne sono colpite descrivono la presenza degli stessi sintomi. Normalmente, un episodio acuto dura circa 30-40 minuti, ma l’intensità dei sintomi stessi può variare notevolmente. In alcuni casi il paziente riferisce di avvertire una sensazione di morte imminente, che lo porta a cercare il soccorso medico. Possono essere riportati anche stordimento e vertigini, mancanza di respiro in assenza di dolore toracico (soprattutto nei pazienti diabetici), svenimento con perdita di coscienza

Molte persone confondono l’infarto miocardico con l’arresto cardiaco. Sebbene l’infarto del miocardio possa causare l’arresto cardiaco, non ne è l’unica causa ed un infarto miocardico non determina necessariamente l’arresto cardiaco.

 

 

Quali sono i fattori di rischio?

I fattori di rischio per l’aterosclerosi e l’infarto sono distinti in fattori modificabili e fattori non modificabili.

Fattori non modificabili:

-età: il rischio di infarto, come per quasi tutte le patologie cardiovascolari, aumenta con l’avanzare dell’età.

-sesso: l’aterosclerosi e l’infarto sono più comuni negli uomini rispetto alle donne per le decadi dell’età’ giovanile e matura. Dopo la menopausa femminile il rischio di aterosclerosi e infarto e’ analogo negli uomini e nelle donne.

-familiarità: chi presenta nella propria storia familiare casi di malattia cardiovascolare acuta è maggiormente a rischio di infarto, soprattutto se la patologia cardiovascolare del congiunto si e’ manifestata in età giovanile

Fattori modificabili:

-stile di vita: sedentarietà e fumo di tabacco sono fra i più importanti fattori di rischio cardiovascolare. Smettere di fumare e condurre una vita attiva, facendo regolarmente almeno 20-30 minuti di attività fisica al giorno, è il metodo migliore per prevenire i problemi cardiovascolari e per tutelare la propria salute.

-alimentazione: Una dieta troppo ricca di calorie e grassi contribuisce ad aumentare il livello di colesterolo e di altri grassi (lipidi) nel sangue, rendendo molto più probabili l’aterosclerosi e l’infarto. Un’alimentazione sana ed equilibrata ha una grande valenza in termini di prevenzione delle malattie cardiovascolari.

-ipertensione arteriosa: la “pressione alta” o ipertensione arteriosa può avere varie cause e interessa una larga fetta della popolazione di età superiore ai 50 anni. Si associa ad una aumentata probabilità di sviluppare l’aterosclerosi e le sue complicanze, come l’infarto cardiaco o cerebrale. Condiziona un aumento del lavoro cardiaco che si traduce nel tempo con il progressivo malfunzionamento del cuore e con la comparsa di scompenso cardiocircolatorio

-diabete: l’eccesso di glucosio nel sangue danneggia le arterie e favorisce l’aterosclerosi, l’infarto miocardico e cerebrale e il danno di organi importanti come il rene, con la comparsa di insufficienza renale, a sua volta associata ad aumentato rischio cardiovascolare.

-droghe: l’uso di droghe può aumentare notevolmente la possibilità di infarto miocardico ed abbassare l’età media in cui si manifesta.

 

 

 

Diagnosi

L’infarto viene generalmente diagnosticato a partire dai sintomi riferiti dal paziente. Nel caso di sospetto infarto del miocardio, è possibile confermare l’ipotesi diagnostica mediante l’esecuzione di un elettrocardiogramma.

Attraverso gli esami del sangue, è possibile diagnosticare un infarto rilevando la presenza di alcune sostanze (gli enzimi cardiaci), che vengono rilasciate nel sangue dalle cellule del muscolo cardiaco che sono andate incontro a morte e permangono in circolo fino ad un paio di settimane dopo l’evento.

È possibile verificare la diagnosi di infarto del miocardio e valutare i danni causati dallo stesso attraverso un ecocardiogramma con Color Doppler. La malattia delle coronarie viene valutata mediante coronarografia con impiego del mezzo di contrasto. Dopo un infarto si può valutare indirettamente il grado di efficienza della circolazione coronarica e l’eventuale comparsa di ischemia mediante Elettrocardiogramma da sforzo, Ecocardiogramma da sforzo o da stress farmacologico, Scintigrafia miocardica da sforzo o da stress farmacologico e Risonanza Magnetica da stress farmacologico.

 

Trattamenti

Il primo obiettivo del trattamento dell’infarto miocardico, all’esordio della malattia, è quello di promuovere la riapertura della coronaria che si è occlusa. In questa fase il tempo risparmiato tra l’arrivo del paziente e la riapertura del vaso si traduce in un guadagno di muscolo cardiaco prima che venga danneggiato in modo irreversibile.

Il trattamento prevede la disostruzione del lume della coronaria mediante l’introduzione di un catetere dotato di palloncino gonfiabile all’apice, capace di passare attraverso il coagulo presente nel punto di massimo restringimento della coronaria stessa e di schiacciarne le componenti sulle pareti (angioplastica coronarica), e il posizionamento di una protesi a rete all’interno del vaso (stent) che contribuisce a mantenerlo aperto dopo la disostruzione.

In mancanza di angioplastica o della possibilità di raggiungere le coronarie con il catetere esistono anche farmaci che sono in grado di dissolvere il trombo dopo essere stati somministrati per via endovenosa (trombolitici) benché’ non utilizzabili in tutti i pazienti, in quanto associati alla possibilità di produrre emorragie anche gravi.

Altri farmaci, tra cui gli anticoagulanti, gli antiaggreganti, i betabloccanti, gli ACE inibitori e le statine, sono quasi sempre presenti nel corredo farmacologico del paziente colpito da infarto miocardico. Il loro uso va valutato in base al profilo di rischio emorragico del paziente, alla tolleranza individuale e alle controindicazioni che variano da soggetto a soggetto.

In tutti i casi in cui si sia rilevata una malattia coronarica grave o estesa e che non siano trattabili con l’angioplastica coronarica e lo stent si può ricorrere all’intervento di bypass coronarico che consiste nel creare chirurgicamente un canale di comunicazione fra l’aorta e la coronaria ristretta o ostruita a valle della lesione, mediante l’utilizzo di altre arterie (arteria mammaria interna) o vene (safena rimossa dagli arti inferiori). Normalmente, questo tipo di approccio non viene utilizzato in emergenza a meno che non vi sia assoluta necessità.

 

Prevenzione

La terapia prescritta alla dimissione prevede sempre l’Aspirina spesso associata ad un altro antiaggregante, che andrà mantenuto per un tempo variabile da un mese ad un anno, il betabloccante, l’ace-inibitore e la statina. Intolleranze individuali o la controindicazione assoluta ad uno di questi preparati può’ essere la causa della loro mancata prescrizione.

Questa terapia e’ spesso affiancata da altri preparati, secondo le caratteristiche individuali dei soggetti e le malattie associate. Lo scopo della terapia e’ quello di rallentare la progressione dell’aterosclerosi e di prevenire un secondo episodio infartuale, le sue temibili complicanze come la morte o l’ictus, e ridurre l’evoluzione verso un malfunzionamento del cuore e della circolazione (scompenso).

Ancora una volta la modificazione dello stile di vita può contribuire enormemente alla prevenzione.

Viene pertanto raccomandato di:

-ridurre il proprio peso corporeo fino al raggiungimento di un valore nella norma per età e sesso. La valutazione del peso corporeo viene fatta non solo in assoluto ma soprattutto come indice di massa corporea o BMI, unità di volume nella quale si tiene conto di peso e altezza, i cui valori normali sono stati condivisi dalla comunità scientifica internazionale.

-smettere di fumare, facendosi aiutare anche da centri specializzati ad assistere pazienti che non sono in grado di sostenere questa decisione da soli.

-praticare attività fisica regolarmente, con intensità variabile a seconda di età e condizioni generali di salute. È a questo proposito importante discutere con il proprio medico in merito ad un programma di allenamento adatto alle proprie caratteristiche.

-evitare cibi grassi, eccessivamente conditi o fritti. Non eccedere con alcool (un bicchiere di vino al pasto al giorno) e dolci. Privilegiare i grassi vegetali e i pasti a base di verdure, fibre, carni magre e pesce.

-limitare, per quanto possibile, le situazioni che possono essere fonte di stress, specialmente se queste tendono a protrarsi nel tempo.

 

 

Quali tecniche si usano per la riabilitazione?

Dopo un infarto miocardico può essere indicato un periodo di riabilitazione cardiologica. La stessa può essere fatta in regime di degenza o ambulatorialmente, secondo la gravità dell’infarto stesso, la capacità di recuperare la propria attività fisica da parte del paziente e le eventuali malattie extracardiache associate.

Le principali finalità della riabilitazione sono quelle di una graduale ripresa della capacità di esercizio individuale, di un assestamento della terapia che si avvicini il più possibile a quanto sarà assunto dal paziente nella vita extra-ospedaliera e, infine, di modificazione dello stile di vita.

Per le diverse modalità di esecuzione della riabilitazione e relativi programmi si rimanda alla sezione specifica.

Aneurismi dell’aorta addominale

Aneurismi dell’aorta addominale

 

Che cosa è un aneurisma?

Il termine aneurisma indica una dilatazione localizzata e permanente di un’arteria causata dal danneggiamento delle fibre elastiche e muscolari presenti nella parete. Privo così della sua solita elasticità e sotto la spinta della pressione del sangue, il vaso si allarga progressivamente. L’evoluzione naturale dell’aneurisma comporta un progressivo aumento di calibro del tratto di arteria interessato fino all’inevitabile rottura del vaso. I fattori di rischio che possono partecipare alla formazione dell’aneurisma sono ipertensione, familiarità, livelli elevati di colesterolo, diabete e fumo. Una malattia molto diffusa è l’aneurisma dell’aorta, che interessa il 6% circa della popolazione di età superiore a 60 anni, e colpisce più frequentemente gli uomini. Gli aneurismi più diffusi colpiscono l’aorta addominale sottorenale, allargandosi talvolta alle arterie iliache, cioè ai due rami principali di divisione dell’aorta diretti agli arti inferiori.

 

Sintomi dell’aneurisma

Il più delle volte l’aneurisma dell’aorta addominale è totalmente asintomatico, ossia non ci sono segni che possano avvertire della sua presenza. Molto spesso, infatti, viene diagnosticato in occasione di esami o visite eseguiti per altre ragioni. A volte è possibile avvertire un dolore al dorso ed alla regione lombare, a causa della compressione effettuata dall’aneurisma sui corpi vertebrali e sulle radici nervose. Sintomi molto diversi si presentano invece in caso di rottura dell’aneurisma: l’emorragia provoca dolori addominali o dorsali con anemia e calo importante dei valori di pressione arteriosa. In presenza di questi gravi disturbi è necessario il ricovero in ospedale immediato per il trattamento.

Come viene effettuata la diagnosi

Palpazione dell’addome

Ecografia addominale o l’ecocolordoppler

Tomografia assiale computerizzata (TAC)

Angio-risonanza magnetica (angio-RNM)

Per i soggetti che presentano fattori di rischio (ipertensione, familiarità, fumo, valori elevati di colesterolo, storia personale di malattia di cuore o delle arterie degli arti inferiori e delle carotidi, diabete, malattie croniche polmonari) è importante eseguire periodicamente un esame ecografico o ecocolordoppler con studio dei diametri dell’aorta. Il medico specialista suggerirà eventualmente il tipo di esami per approfondimento, valutandone anche la necessità.

Trattamenti

Aneurismectomia tradizionale

Aneurismectomia con tecnica endovascolare

È necessario che la scelta tra le due diverse modalità di trattamento venga effettuata solo dopo aver attentamente valutato i dati relativi alle condizioni generali, con particolare riferimento a malattie di cuore, polmoni e reni, e le dimensioni e morfologia della dilatazione aneurismatica.

Angina pectoris

Angina pectoris

 

L’angina pectoris è una malattia che si identifica in larga misura con il proprio sintomo principale; il termine proviene dal latino e indica il dolore al torace. Viene provocata da un temporaneo scarso afflusso di sangue al cuore che comporta la mancanza di ossigeno al tessuto cardiaco. Il fenomeno prende anche il nome di ischemia, che però nell’angina pectoris è reversibile e non arriva al punto di causare un danno cardiaco permanente. Solitamente il sintomo principale della malattia è un dolore toracico improvviso, acuto e transitorio; è anche possibile che si avvertano: pesantezza a torace e arti superiori, formicolìo o indolenzimento nella stessa sede, affaticamento, sudorazione, nausea. I sintomi possono variare molto da individuo a individuo per intensità e durata.

Che cos’è l’angina pectoris?

L’angina si distingue in diverse tipologie:

Angina stabile o da sforzo: viene determinata da uno sforzo fisico, dal freddo o dall’emozione. In questo caso si ha manifestazione del sintomo della malattia nel momento in cui si sta svolgendo l’attività fisica, in special modo se esposti alle basse temperature, o al culmine di uno stress emotivo. Questa è la forma più diffusa, ma anche quella maggiormente controllabile.

Angina instabile: in questo caso il dolore si presenta in maniera imprevista, anche a riposo, o in caso di sforzi fisici modesti. Può essere causata dall’ostruzione temporanea di una coronaria da parte di un coagulo, detto anche trombo, che si forma su una malattia aterosclerotica delle pareti vasali. Per questo rappresenta la forma più pericolosa, da trattare tempestivamente, poiché fortemente correlata al rischio di progressione verso un infarto acuto del miocardio. Anche l’angina variante o di Prinzmetal può essere considerata una forma di angina instabile. L’angina variante viene provocata da uno spasmo in una delle coronarie, con restringimento importante, anche se temporaneo, del vaso fino a compromettere in modo significativo il flusso di sangue e a determinare ischemia associata a dolore toracico. L’angina di Prinzmetal è una malattia abbastanza rara che non è in genere correlata ad aterosclerosi del vaso coronarico interessato dallo spasmo.

Angina secondaria: in questa tipologia sono comprese tutte quelle forme di “ischemia” cardiaca che non sono causate da restringimenti o ostruzioni coronariche, ma da altre patologie quali l’insufficienza aortica, la stenosi mitralica, l’anemia grave, l’ipertiroidismo e le aritmie.

Quali sono le cause dell’angina pectoris?

L’angina viene provocata dalla riduzione, temporanea, dell’afflusso di sangue al cuore. Il sangue trasporta l’ossigeno necessario ai tessuti del muscolo cardiaco per vivere. Se il flusso di sangue non è adeguato si verificano le condizioni per un’ischemia. La riduzione del flusso può essere determinata da un restringimento critico delle coronarie (stenosi), tale da non permettere un apporto sufficiente, in presenza di aumentate richieste di ossigeno da parte del tessuto cardiaco (durante attività fisica, freddo o stress emotivo). Ciò si verifica più spesso in caso di aterosclerosi coronarica, malattia che colpisce le pareti dei vasi sanguigni tramite la formazione di placche a contenuto lipidico o fibroso, che si sviluppano verso la progressiva riduzione del lume o verso l’ulcerazione e la formazione brusca di un coagulo al di sopra del punto di lesione. L’ostruzione/restringimento della coronaria può avvenire più raramente anche per spasmo della stessa, solitamente senza alterazioni aterosclerotiche delle pareti vasali. Lo sviluppo di aterosclerosi viene favorito da condizioni come il fumo, il diabete, l’ipertensione e l’obesità.

Con quali sintomi si manifesta l’angina pectoris?

Tra i sintomi dell’angina sono compresi:

Dolore acuto, pesantezza, formicolìo o indolenzimento al torace, che talvolta si può estendere verso spalle, braccia, gomiti, polsi, schiena, collo, gola e mandibola

Dolore prolungato nella parte superiore dell’addome

Mancanza di respiro (dispnea)

Sudorazione

Svenimento

Nausea e vomito

In che modo si può prevenire l’angina pectoris?

In primo luogo si può prevenire l’angina pectoris attraverso la prevenzione dell’aterosclerosi coronarica, mettendo in atto tutte le misure atte a controllare i principali fattori di rischio cardiovascolare. Si dovrebbe evitare la sedentarietà, effettuare un’attività fisica moderata e regolare; evitare, se si sono verificati episodi di dolore anginoso, sforzi eccessivi e fonti di stress psicofisico; evitare sovrappeso e obesità, seguire un regime alimentare sano, povero di grassi e ricco di frutta e verdura; evitare pasti abbondanti e il consumo di alcolici; non fumare o smettere di farlo.

Per chi è affetto da diabete è necessario attuare tutte le misure per tenere sotto un controllo adeguato la glicemia. I soggetti diabetici dovranno, inoltre, controllare periodicamente la pressione sanguigna.

Diagnosi

Chi ha anche solo un sospetto episodio di angina, dovrebbe consultare tempestivamente il medico per effettuare gli esami del caso, che comprendono:

Elettrocardiogramma (ECG): registra l’attività elettrica del cuore e permette l’individuazione della presenza di anomalie suggestive per ischemia miocardica. L’Holter è il monitoraggio prolungato nelle 24 ore dell’ECG: nel caso di sospetta angina permette la registrazione dell’elettrocardiogramma nella vita di tutti i giorni e in particolare nelle situazioni in cui il paziente riferisce di avere la sintomatologia.

Il test da sforzo: l’esame consiste nel registrare un elettrocardiogramma nel momento in cui il paziente compie uno sforzo fisico, in generale mentre cammina su un tapis roulant o pedala su una cyclette. La conduzione di questo test viene effettuata seguendo dei protocolli predefiniti, mirati a valutare al meglio la riserva funzionale del circolo coronarico. Il test si interrompe con la comparsa di sintomi, alterazioni ECG o pressione elevata o una volta raggiunta l’attività massimale per quel paziente in mancanza di segni e sintomi indicativi di ischemia.

Scintigrafia miocardica: è una metodica impiegata per valutare l’ischemia da sforzo in pazienti per cui solo l’elettrocardiogramma non sarebbe adeguatamente interpretabile. Anche in questa situazione l’esame del paziente può essere eseguito con cyclette o tapis roulant. Al monitoraggio elettrocardiografico si aggiunge la somministrazione endovenosa di un tracciante radioattivo che, se l’afflusso di sangue al cuore è regolare, si posiziona nel tessuto cardiaco. Dal tracciante radioattivo viene emesso un segnale che può essere rilevato da un’apposita apparecchiatura chiamata Gamma-camera. Se il radiotracciante viene somministrato in situazione di riposo e al culmine dell’attività, viene valutata l’eventuale comparsa di assenza di segnale in quest’ultima condizione: ciò indica che il paziente manifesta un’ischemia da sforzo. In base a questo esame è possibile non solo diagnosticare la presenza di ischemia ma anche fornire un’informazione più accurata sulla sua sede e sull’estensione. Lo stesso esame può essere effettuato inducendo l’ipotetica ischemia con un farmaco ad hoc e non con l’esercizio fisico vero e proprio.

Ecocardiogramma: è un test di immagine per visualizzare le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio irradia un fascio di ultrasuoni al torace, tramite una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). Si possono raccogliere le immagini in tempo reale anche durante l’esecuzione di un test da sforzo, fornendo in quel caso informazioni molto importanti sulla capacità del cuore di contrarsi correttamente durante l’attività fisica. Così come la scintigrafia anche l’ecocardiogramma può essere registrato dopo aver somministrato al paziente un farmaco che può indurre un’eventuale ischemia (ECO-stress), consentendo di diagnosticarla e valutarne l’estensione e la sede.

Coronografia o angiografia coronarica: è l’esame con cui è possibile visualizzare le coronarie praticando al loro interno l’iniezione di mezzo di contrasto radiopaco. L’esame viene effettuato in un’apposita sala radiologica, in cui vengono rispettate tutte le misure di sterilità necessarie. L’iniezione del contrasto nelle coronarie presuppone il cateterismo selettivo di un’arteria e l’avanzamento di un catetere fino all’origine dei vasi esplorati.

TC cuore o tomografia computerizzata (TC): è un esame diagnostico attraverso immagini per la valutazione della presenza di calcificazioni causate da placche aterosclerotiche nei vasi coronarici, indicatore indiretto di un rischio elevato di patologia coronarica maggiore. Utilizzando gli apparecchi attuali, anche con la somministrazione di mezzo di contrasto per via endovenosa, si può ricostruire il lume coronarico e ottenere informazioni su eventuali restringimenti critici.

Risonanza Magnetica Nucleare (RMN): produce immagini dettagliate della struttura del cuore e dei vasi sanguigni tramite la registrazione di un segnale emanato dalle cellule sottoposte a un intenso campo magnetico. Consente la valutazione della morfologia delle strutture del cuore, della funzione cardiaca ed eventuali alterazioni del movimento di parete secondarie a ischemia indotta farmacologicamente (RMN cardiaca da stress).

Trattamenti

Il trattamento dell’angina è mirato a migliorare la perfusione delle coronarie e a evitare il rischio di infarto e trombosi. Nella terapia sono incluse diverse opzioni, farmacologiche o interventistiche, che il cardiologo valuta in relazione al quadro clinico:

Nitrati (nitroglicerina): è una categoria di farmaci impiegata per promuovere la vasodilatazione delle coronarie, consentendo così un aumento del flusso di sangue verso il cuore.

Aspirina: è stato appurato da studi scientifici che l’aspirina riduce la probabilità di infarto. Questo farmaco, infatti, svolge un’azione antiaggregante che previene la formazione di trombi. La stessa azione viene svolta anche da altri farmaci antipiastrinici (ticlopidina, clopidogrel, prasugrel e ticagrelor), che possono essere somministrati in alternativa o in combinazione con l’aspirina stessa, secondo le diverse condizioni cliniche.

Beta-bloccanti: contribuiscono a ridurre il lavoro del cuore e quindi anche il suo fabbisogno di ossigeno rallentando il battito cardiaco e abbassando la pressione sanguigna.

Statine: farmaci che svolgono il controllo del colesterolo, limitando la produzione e l’accumulo sulle pareti delle arterie e rallentando, così, lo sviluppo o la progressione dell’aterosclerosi.

Calcio-antagonisti: hanno un’azione di vasodilazione sulle coronarie che permette l’aumento del flusso di sangue verso il cuore.

L’opzione interventistica comprende:

L’angioplastica coronarica percutanea, che è un intervento che prevede l’inserimento nel lume della coronaria, in corso di angiografia, di un piccolo pallone generalmente correlato a una struttura metallica a maglie (stent): il pallone viene gonfiato ed espanso in corrispondenza del restringimento dell’arteria. Questa procedura migliora il flusso di sangue a valle, riducendo o eliminando l’angina.

Bypass coronarico, che è un intervento chirurgico che prevede il confezionamento di condotti vascolari (di origine venosa o arteriosa) in grado di “bypassare” il punto di restringimento delle coronarie, facendo pertanto comunicare direttamente la porzione a monte con quella a valle della stenosi. L’intervento viene effettuato a torace aperto, somministrando al paziente l’anestesia generale e quasi sempre con il supporto della circolazione extra-corporea.

Aritmie cardiache

Aritmie cardiache

 

Con il termine aritmia viene indicata una alterazione del normale ritmo cardiaco. Il battito cardiaco non risulta più essere “regolare”: il cuore batte in maniera irregolare per cui è possibile avere sia un battito veloce (tachiaritmia) che un battito rallentato (bradiaritmia).

L’aritmia può essere causata da molteplici condizioni, coinvolgendo un’alterazione della formazione o della conduzione del battito.

I sintomi comuni sono: sensazione di battito cardiaco accelerato o irregolare (cuore che salta in gola, senso di sfarfallio nel torace ecc.) oppure molto lento, a volte associato ad un profondo senso di stanchezza.

Le aritmie vengono suddivise in 2 grandi famiglie:

bradiaritmie: aritmie caratterizzate da un battito cardiaco lento.

 

Disfunzioni della formazione dell’impulso

Blocchi atrio-ventricolari

tachiaritmie: aritmie caratterizzate da un battito cardiaco rapido: le forme più comuni sono:

 

Tachicardia da rientro nodale

Tachicardia da rientro atrio-ventricolare (WPW)

Tachicardia Atriale

Fibrillazione Atriale

Flutter atriale

Tachicardia ventricolari

Arteriopatia periferica

Arteriopatia periferica

 

L’arteriopatia periferica è una patologia che colpisce il sistema circolatorio, caratterizzata dalla riduzione dell’afflusso di sangue (e quindi di ossigeno) alle arterie degli arti superiori e inferiori, causato dall’ostruzione e dal restringimento di queste ultime. Coinvolge soprattutto gli arti inferiori.

Che cos’è l’arteriopatia periferica?

L’arteriopatia periferica è una malattia che tende a svilupparsi con il passare dell’età: è stato stimato che a soffrirne sia un ultrasettantenne su tre.

Tuttavia, anche i più giovani potrebbero essere soggetti al rischio di sviluppare questa patologia in presenza di condizioni come il fumo di sigaretta, l’assenza di esercizio fisico e in presenza di patologie come il diabete.

È molto importante prestare attenzione al trattamento di questa malattia, sia per preservare l’eventuale perdita dell’arto colpito, sia per ridurre il rischio di sviluppare altre due condizioni a essa connesse, come infarto e ictus.

Da cosa è causata l’arteriopatia periferica?

All’origine dell’arteriopatia periferica c’è l’aterosclerosi, condizione patologica che colpisce le pareti interne delle arterie, caratterizzata dalla presenza di placche costituite da materiale lipidico (colesterolo, fosfolipidi, trigliceridi), proteico e fibroso che determinano il restringimento del lume del vaso arterioso.

Le probabilità di sviluppare l’arteriopatia periferica possono aumentare in presenza di fattori come

l’età: per le persone con più di 50 anni il rischio di sviluppare la malattia risulta maggiore

il genere sessuale: gli uomini sono più a rischio delle donne

il vizio del fumo

la presenza di diabete

la presenza di pressione alta

livelli di colesterolo e trigliceridi oltre la norma

livelli elevati di omocisteina (un aminoacido)

presenza di sovrappeso o obesità

Che sintomi presenta l’arteriopatia periferica?

Quando non si manifesta in forma grave, l’arteriopatia periferica può essere asintomatica o presentarsi con una sintomatologia lieve. Nei casi più gravi, invece, i sintomi possono essere severi.

Il sintomo più caratteristico dell’arteriopatia periferica è la claudicatio intermittens, ovvero un dolore muscolare avvertito nelle gambe o nelle braccia mentre si svolgono diverse attività come camminare; il male avvertito, tuttavia, scompare dopo pochi minuti di riposo.

È la posizione della arteria ostruita o ristretta che determina la localizzazione del dolore. Nel caso dell’arteriopatia periferica che colpisce le gambe, il dolore più comune risulta essere quello al livello del polpaccio. La gravità della claudicatio intermittens varia ampiamente: può essere rappresentata da un leggero fastidio così come da un dolore debilitante.

Altri sintomi sono:

intorpidimento e/o debolezza dell’arto colpito

cambiamento di colore dell’arto colpito

l’arto colpito risulta più freddo

la pelle dell’arto colpito risulta più lucida e potrebbero verificarsi ritardi nella crescita dei peli o delle unghie

nei casi più gravi sull’arto colpito si possono sviluppare delle piaghe

negli uomini può manifestarsi la disfunzione erettile

Come prevenire l’arteriopatia periferica?

Per prevenire l’arteriopatia periferica è consigliabile:

smettere di fumare

fare esercizio fisico, anche moderato (per esempio camminare almeno 30 minuti 3 volte alla settimana)

seguire un regime alimentare sano

gestire il diabete, mantenendo ottimali livelli di zucchero nel sangue

ridurre il colesterolo

tenere sotto controllo l’ipertensione

mantenere il peso forma, evitando condizioni come sovrappeso e obesità

Aterosclerosi

Aterosclerosi

 

L’aterosclerosi (più comunemente conosciuta nel mondo laico come arteriosclerosi) è una condizione patologica rappresentata da alterazioni della parete delle arterie, che perdono la propria elasticità a causa dell’accumulo di calcio, colesterolo, cellule infiammatorie e materiale fibrotico.

Che cos’è l’aterosclerosi?

L’irrigidimento delle arterie è un fenomeno correlato all’accumulo di componenti patologiche nel contesto delle pareti vascolari. Tale patologia si presenta in varie forme tra cui una delle più diffuse è l’aterosclerosi, caratterizzata dalla formazione di placche parietali in cui sono contenuti materiale amorfo, colesterolo, cellule muscolari lisce, cellule infiammatorie e cellule provenienti dal sangue. Se la placca protrude nel lume vasale può arrivare a ostacolare il flusso ematico al suo interno. Un’eventuale rottura della placca stessa, generalmente coperta da un rivestimento costituito da un sottile cappuccio fibroso e da cellule endoteliali, può comportare trombosi e obliterazione completa del lume del vaso, con conseguente interruzione del flusso ematico. Una volta instauratasi, l’aterosclerosi si presenta come un processo irreversibile e in potenziale, continua espansione: la formazione delle placche e il rallentamento del peggioramento dell’aterosclerosi in corso si possono prevenire attraverso uno stile di vita adeguato e trattamenti mirati al controllo di diabete e ipertensione, oltre che alla riduzione del colesterolo.

Da cosa può essere causata l’aterosclerosi?

L’aterosclerosi è solitamente correlata all’invecchiamento. Tuttavia, la sua comparsa può avvenire anche in età giovanile a causa di livelli elevati di colesterolo nel sangue, ipertensione arteriosa, fumo di sigaretta, diabete mellito e familiarità. Anche un’alimentazione ricca di grassi, il consumo eccessivo di alcolici, un’attività fisica insufficiente e il sovrappeso possono contribuire.

Con quali sintomi si manifesta l’aterosclerosi?

In genere l’aterosclerosi di per sé non provoca sintomi fino a che non compromette il flusso del sangue all’interno delle arterie. Il restringimento delle arterie e la loro occlusione, determinata dalla formazione di un trombo, provocano ischemia e infarto nel territorio a valle delle stesse. I sintomi dell’ischemia e dell’infarto varieranno a seconda della localizzazione dell’aterosclerosi: se nel territorio coronarico si avrà angina, infarto miocardico, in quello cerebrale si avrà ictus o TIA, in quello intestinale, renale o periferico si avrà arteriopatia obliterante arti inferiori.

Come prevenire l’aterosclerosi?

Per prevenire l’aterosclerosi è importante condurre uno stile di vita salutare caratterizzato da un’alimentazione sana, equilibrata e povera di grassi di origine animale e un’attività fisica adeguata. È inoltre necessario evitare il fumo e limitare il consumo di alcolici.

Diagnosi

L’aterosclerosi non è correlata necessariamente a segni obiettivi rilevabili alla visita medica. In caso di restringimento di un grosso vaso arterioso (es. carotide) si può verificare turbolenza del flusso di sangue al suo interno, determinando un soffio, che può essere percepito dal medico con lo stetoscopio. In seguito, però, sarà necessario effettuare altre indagini quali:

eco-doppler

angiografia

angio RM

angio TC

Trattamento

In caso di irrigidimento delle arterie è fondamentale correggere tutti i fattori di rischio cardiovascolare, agendo anche attraverso le modificazioni dello stile di vita. In particolare è necessario:

evitare i cibi ricchi di grassi, soprattutto se di origine animale;

limitare il consumo di alcolici;

praticare regolarmente attività fisica. Per gli individui normopeso sono sufficienti 30–45 minuti almeno 3 volte la settimana, mentre per gli individui in sovrappeso sono necessari livelli superiori;

Nel caso in cui l’azione sullo stile di vita non risulti sufficiente il medico può prescrivere l’assunzione di farmaci:

per far abbassare i livelli di colesterolo (in particolare le statine)

per rallentare la progressione dell’aterosclerosi (ACE-inibitori, alcune statine)

per ridurre la pressione arteriosa (ACE-inibitori, betabloccanti, calcio-antagonisti e diuretici)

per controllare malattie specifiche come il diabete o per alleviare disturbi invalidanti, come il dolore alle gambe (tipico della claudicatio intermittens)

per diminuire il rischio di formazione di coaguli di sangue (trombi) intravascolari (gli antiaggreganti piastrinici)

In caso di aterosclerosi grave con ipoperfusione o infarto di organi importanti può essere necessario ricorrere a interventi di:

angioplastica con stent

endoarteriectomia

bypass

Nel caso in cui un’arteria venga bloccata da un coagulo di sangue (trombo) e non sia passibile di disostruzione meccanica, si possono utilizzare farmaci per scioglierlo (trombolisi) che vengono somministrati per via endovenosa.

Bradiaritmie

Bradiaritmie

 

È un’aritmia caratterizzata da un disturbo nella formazione o nella conduzione dell’impulso elettrico. Le forme più frequenti sono la malattia del nodo del seno atriale o i blocchi atrio-ventricolari.

Che cos’è la bradiaritmia?

In condizioni normali l’impulso elettrico viene generato nel nodo seno atriale e viene condotto attraverso gli atri e in seguito ai ventricoli mediante il nodo atrioventricolare e il sistema di conduzione intraventricolare specializzato (fascio di His). Una bradiaritmia è un disturbo nella genesi o nella conduzione dell’impulso elettrico. Comprende quindi la malattia del nodo del seno che si manifesta con basse frequenze sinusali o improvvisa assenza della genesi del battito (blocco seno-atriale o arresto sinusale).

I blocchi atrio-ventricolari sono invece disturbi di conduzione dell’impulso dagli atri ai ventricoli. È possibile che si verifichino all’interno del nodo atrioventricolare o nel sistema di conduzione intraventricolare.

Vengono classificati per gradi:

Primo grado: quando tutti gli impulsi atriali vengono condotti ai ventricoli con un rallentamento.

Secondo grado o conduzione intermittente: quando alcuni impulsi vengono condotti mentre altri restano bloccati.

Terzo grado o blocco completo: quando nessun impulso atriale viene condotto ai ventricoli.

I blocchi a livello del nodo atrioventricolare sono spesso benigni e se ne riscontra una minore tendenza alla progressione. I blocchi situati al di sotto del nodo e fascio di His, invece, hanno una più elevata tendenza alla progressione in blocchi più gravi.

I disturbi bradiaritmici possono essere correlati a sintomi come debolezza, affaticabilità, capogiro, lipotimia o sincope.

Come effettuare la diagnosi

Gli strumenti diagnostici sono:

elettrocardiogramma

Holter ECG 24 ore

Spesso integrano una corretta visita cardiologica con anamnesi.

Trattamenti

Se le bradiaritmie si presentano mentre sì è in corso di terapia con farmaci che possono risultarne la causa, si può risolvere il problema sospendendo la terapia.

In base alla sede e all’entità del blocco, nonché alla presenza di sintomi correlati, può essere indicato l’impianto di un pacemaker.

Prevenzione

Le bradiaritmie sono soprattutto l’espressione di un invecchiamento del “sistema elettrico” del nostro cuore, per cui non si hanno a disposizione programmi di prevenzione particolari. Tuttavia risulta necessario effettuare una valutazione aritmologica nel caso ci fosse una certa familiarità per difetti del battito cardiaco o se fosse nota una preesistente condizione di bradicardia.

Cardiomiopatia dilatativa

Cardiomiopatia dilatativa

 

La cardiomiopatia dilatativa è una malattia che colpisce il muscolo cardiaco e che compromette la capacità del cuore di pompare efficientemente il sangue verso il resto dell’organismo.

Che cos’è la cardiomiopatia dilatativa?

La cardiomiopatia dilatativa è una patologia che colpisce in particolare il ventricolo sinistro, la parte del cuore che manda il sangue al resto dell’organismo tramite l’aorta. Si manifesta con un ingrossamento del ventricolo, correlato a una ridotta capacità di pompare il sangue (insufficienza cardiaca “sistolica” o “con bassa frazione di eiezione”). Nonostante in alcuni casi possa essere asintomatica, la cardiomiopatia dilatativa è una malattia che deve essere trattata in tempo, altrimenti si può arrivare a scompenso cardiaco, una sindrome caratterizzata dall’accumulo di liquidi nei polmoni (congestione polmonare), nell’addome, nelle gambe e nei piedi, insufficienza (ossia incontinenza) valvolare mitralica e/o tricuspidale secondaria alla dilatazione ventricolare, embolie, e aritmie che possono anche provocare morte improvvisa.

Da cosa può essere causata la cardiomiopatia dilatativa?

In molti casi non si può risalire alle cause dell’ingrossamento del cuore, per cui la cardiomiopatia dilatativa viene definita idiopatica. Il cuore può ingrossarsi per diversi motivi: mutazioni genetiche, difetti congeniti, infezioni, abuso di alcol o di sostanze stupefacenti, alcuni chemioterapici, esposizione a sostanze tossiche come il piombo, il mercurio e il cobalto, e malattie cardiovascolari come la cardiopatia ischemica e l’ipertensione arteriosa.

Con quali sintomi si manifesta la cardiomiopatia dilatativa?

Generalmente i sintomi della cardiomiopatia dilatativa sono quelli dello scompenso cardiaco oppure sono determinati da aritmie e possono comprendere pallore cutaneo, debolezza, facile faticabilità, respiro affannoso in condizione di sforzi a volte anche modesti o quando si è sdraiati, o si ha tosse secca persistente (in particolare da sdraiati), gonfiore addominale, delle gambe, dei piedi e delle caviglie, aumento improvviso di peso causato dalla ritenzione idrica, perdita di appetito, palpitazioni, capogiri o svenimenti.

Come prevenire la cardiomiopatia dilatativa?

È possibile ridurre il rischio di insorgenza di una cardiomiopatia dilatativa evitando il fumo, consumando alcol solo con moderazione, non facendo uso di sostanze stupefacenti, mantenendo il giusto peso e seguendo un regime alimentare sano ed equilibrato e un’attività fisica regolare adatta alle proprie condizioni di salute.

Diagnosi

In presenza dei sintomi di una possibile cardiomiopatia dilatativa il medico può prescrivere i seguenti esami:

Analisi del sangue: è possibile dosare il BNP (brain natriuretic peptide), che risulterà elevato in presenza di scompenso cardiaco; è possibile che si verifichino alterazioni degli indici di funzione epatica e renale, espressione della sofferenza di questi organi dovuta all’insufficienza cardiaca; nei casi più gravi sono presenti iposodiemia e anemia.

Radiografia del torace (RX torace): fornisce due importanti informazioni, la prima che riguarda le dimensioni del cuore e la seconda che interessa la presenza e il grado della congestione polmonare.

ECG: registra l’attività elettrica del cuore. Può presentare molteplici alterazioni, tra cui segni di pregresso infarto miocardico o segni di sovraccarico (affaticamento da “iperlavoro”) del ventricolo sinistro o aritmie.

Ecocardiogramma: è un test di immagine effettuato per visualizzare le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. Utilizzando una sonda appoggiata sulla sua superficie, l’apparecchio trasmette un fascio di ultrasuoni al torace e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con i vari elementi che compongono la struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). Rappresenta l’esame cardine, in quanto consente di valutare le dimensioni e lo spessore delle pareti delle camere cardiache, la funzione contrattile (misurata con un parametro chiamato “frazione di eiezione”) e il funzionamento delle valvole, e di fare una valutazione della pressione polmonare.

Test da sforzo con consumo di ossigeno: l’esame è costituito dalla registrazione di un elettrocardiogramma nel momento in cui il paziente sta compiendo un esercizio fisico, solitamente mentre cammina su un tapis roulant o pedala su una cyclette; viene inoltre applicato un boccaglio per misurare i gas espirati. Per eseguire questo test vengono rispettati dei protocolli predefiniti. Consente di ricevere molteplici informazioni, tra cui le più importanti sono la resistenza all’esercizio del soggetto in esame e la comparsa di segni di ischemia sotto sforzo.

Coronarografia: è l’esame attraverso cui si possono visualizzare le coronarie effettuando un’iniezione di mezzo di contrasto radiopaco al loro interno. L’esame viene effettuato in un’apposita sala radiologica, nella quale vengono scrupolosamente seguite tutte le misure di sterilità necessarie. L’iniezione del contrasto nelle coronarie presuppone il cateterismo selettivo di un’arteria e l’avanzamento di un catetere fino all’origine dei vasi esplorati. Ha come scopo quello di escludere la presenza di una malattia coronarica significativa.

Cateterismo cardiaco: metodologia invasiva basata sull’introduzione di un piccolo tubo (catetere) in un vaso sanguigno; il catetere viene poi spinto fino al cuore e permette di acquisire informazioni importanti riguardo il flusso e l’ossigenazione del sangue e la pressione all’interno delle camere cardiache e delle arterie e delle vene polmonari. Viene utilizzato raramente; documenta un aumento delle pressioni di riempimento ventricolari e, nelle forme più gravi, riduzione della portata cardiaca (ossia della quantità di sangue pompata dal cuore) e ipertensione polmonare.

Biopsia endomiocardica: viene effettuata durante l’esecuzione del cateterismo cardiaco attraverso l’utilizzo di uno strumento chiamato biotomo. Di solito le biopsie si effettuano sul lato destro del setto interventricolare. Viene consigliata ai pazienti con cardiomiopatia dilatativa di recente riscontro e scompenso cardiaco “fulminante” per scoprire la presenza di miocardite e, nel caso, capire di che tipo sono le cellule che sostengono il processo infiammatorio, perché ciò ha un importante valore prognostico.

Risonanza magnetica (RM) cardiaca con mezzo di contrasto: vengono prodotte immagini dettagliate della struttura del cuore e dei vasi sanguigni tramite la registrazione di un segnale emesso dalle cellule sottoposte a un intenso campo magnetico. Fornisce le stesse informazioni dell’ecocardiogramma, ma permette una miglior valutazione del ventricolo destro e, in più, una valutazione della “struttura” del miocardio, portando così ad individuare la presenza di processi infiammatori e di aree di fibrosi (cicatrici).

TC cuore con mezzo di contrasto: è un esame di diagnostica basato su immagini che comporta l’esposizione a radiazioni ionizzanti. Fornisce informazioni analoghe a quella dell’RM. Utilizzando gli apparecchi attuali, se si somministra mezzo di contrasto per via endovenosa, si può ricostruire il lume coronarico e ottenere informazioni su eventuali restringimenti critici.

Indagini genetiche: vengono effettuate analizzando il DNA dei globuli bianchi che sono presenti in un campione di sangue ottenuto attraverso un comune prelievo venoso. In caso di cardiomiopatie dilatative familiari si può effettuare la ricerca delle mutazioni genetiche correlate allo sviluppo di cardiomiopatia dilatativa; se viene identificata una mutazione correlata allo sviluppo di cardiomiopatia dilatativa, si potrà poi procedere allo studio dei familiari “sani”: potranno essere rassicurati sul fatto che non svilupperanno la patologia gli individui per cui la ricerca della mutazione risulterà negativa.

Trattamenti

Quando si giunge a conoscere la causa della cardiomiopatia dilatativa, se possibile questa va rimossa o corretta. Indipendentemente dalla causa, si deve effettuare la terapia per l’insufficienza cardiaca, per migliorare i sintomi e aumentare la sopravvivenza. Attualmente la terapia per l’insufficienza cardiaca include:

Farmaci: ACE-inibitori/sartani, beta-bloccanti, anti-aldosteronici, diuretici, digossina.

L’impianto di un pacemaker (PM) biventricolari e/o un defribrillatore automatico (ICD).

Nei casi più gravi, refrattari ai trattamenti sopra indicati: l’impianto di dispositivi di assistenza ventricolare sinistra (LVAD) e/o il trapianto di cuore.