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Cardiomiopatia ipertrofica

Cardiomiopatia ipertrofica

 

La cardiomiopatia ipertrofica è una condizione in cui il muscolo cardiaco diventa più spesso ed ipertrofico, in mancanza di dilatazione dei ventricoli.

Che cos’è la cardiomiopatia ipertrofica?

La cardiomiopatia ipertrofica può interessare uomini e donne in egual misura. Spesso non può neanche essere diagnosticata a causa dell’assenza di sintomi e in molti casi è possibile comunque condurre una vita normale. È possibile che si manifesti con: aritmie (che possono comportare una morte improvvisa), sintomi da ostruzione all’efflusso del sangue dal ventricolo sinistro (come vertigini e svenimenti), da scompenso cardiaco e da ischemia miocardica. Nelle cardiomiopatie ipertrofiche il ventricolo sinistro diventa meno elastico, per cui risulta avere una capacità ridotta di accogliere il sangue che proviene dai polmoni. La conseguenza è una riduzione della quantità di sangue pompata dal cuore (insufficienza cardiaca “diastolica” o “con conservata frazione di eiezione”): ciò determina i sintomi da scompenso cardiaco. È presente poi una disfunzione microvascolare che comporta ischemia miocardica, da cui possono derivare microinfarti; a ciò si possono forse attribuire i dolori al petto che spesso compaiono in questa patologia. La cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva si ha quando il setto che separa i due ventricoli diventa così spesso da ostruire l’efflusso del sangue dal ventricolo sinistro; ciò viene correlato a distorsione dell’apparato valvolare mitralico, che provoca incontinenza della valvola. In circa il 3% dei pazienti la cardiomiopatia ipertrofica si sviluppa in una forma dilatativa con scompenso cardiaco refrattario e prognosi infausta.

Da cosa può essere causata la cardiomiopatia ipertrofica?

In genere alla base della cardiomiopatia ipertrofica c’è una mutazione genetica, che comporta non solo l’ipertrofia miocardica, ma anche una disposizione anomala delle fibre muscolari cardiache.

Con quali sintomi si manifesta la cardiomiopatia ipertrofica?

Quando presenti, i sintomi della cardiomiopatia ipertrofica possono essere fiato corto, dolore al petto e svenimenti (soprattutto durante l’attività fisica o in caso di sforzi), vertigini, affaticamento e palpitazioni.

Come prevenire la cardiomiopatia ipertrofica?

Essendo una malattia ereditaria, non esistono metodi per prevenire la cardiomiopatia ipertrofica. Esiste un 50% di rischio che il figlio di un individuo affetto dal problema erediti la mutazione genetica alla sua base.

Diagnosi

Il medico può avere il sospetto della presenza di una cardiomiopatia ipertrofica se rileva un soffio al cuore nel corso di una visita medica.

Per avere ulteriore conferma della diagnosi si possono prescrivere le seguenti analisi:

Ecocardiogramma: è un test basato sull’immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio trasmette un fascio di ultrasuoni al torace, utilizzando una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). Rappresenta l’esame cardine: consente la valutazione dell’aumento di spessore delle pareti ventricolari e l’individuazione dell’eventuale ostruzione all’efflusso dal ventricolo sinistro provocata da un’eccesiva ipertrofia del setto interventricolare, nonché l’insufficienza mitralica che è correlata all’ostruzione; può evidenziare segni di disfunzione diastolica.

ECG: registra l’attività elettrica del cuore. Possono essere mostrate molteplici alterazioni, tra cui, in particolare, segni di ipertrofia ventricolare sinistra.

ECG dinamico secondo Holter: L’Holter è il monitoraggio prolungato nelle 24 ore dell’ECG. Può segnalare aritmie.

Cateterismo cardiaco: metodologia invasiva basata sull’introduzione di un piccolo tubo (catetere) in un vaso sanguigno; il catetere viene poi spinto fino al cuore e permette l’acquisizione di informazioni importanti sul flusso e sull’ossigenazione del sangue, e sulla pressione all’interno delle camere cardiache e delle arterie e delle vene polmonari. Viene effettuato di rado; documenta un aumento delle pressioni di riempimento del ventricolo sinistro, diretta conseguenza della sua ridotta elasticità, e può segnalare, nelle forme più avanzate, ipertensione polmonare.

Risonanza magnetica (RM) cardiaca con mezzo di contrasto: vengono prodotte immagini dettagliate della struttura del cuore e dei vasi sanguigni tramite la registrazione di un segnale emesso dalle cellule sottoposte ad un intenso campo magnetico. Consente la valutazione accurata dell’aumento di spessore delle pareti ventricolari e l’identificazione delle cicatrici (aree di “fibrosi”), conseguenza dei microinfarti.

Indagini genetiche: si effettuano analizzando il DNA dei globuli bianchi che sono presenti in un campione di sangue ottenuto tramite un normale prelievo venoso. Si può effettuare la ricerca delle mutazioni genetiche associate allo sviluppo di cardiomiopatia ipertrofica; nel caso venga identificata una mutazione correlata allo sviluppo di cardiomiopatia ipertrofica, sarà poi possibile studiare i familiari “sani”: potranno essere rassicurati sul fatto che non svilupperanno la patologia gli individui per cui la ricerca della mutazione risulterà negativa.

Trattamenti

Il trattamento della cardiomiopatia ipertrofica ha come obiettivi il miglioramento dei sintomi e, nei pazienti ad alto rischio, la prevenzione della morte cardiaca improvvisa.

I possibili approcci terapeutici includono:

L’assunzione di farmaci che migliorano il “rilassamento” del muscolo cardiaco e rallentano i battiti, come i beta-bloccanti, i calcio-antagonisti e alcuni antiaritmici.

L’intervento chirurgico per eliminare l’ostruzione all’efflusso del sangue dal ventricolo sinistro determinato dall’ispessimento del setto che separa i due ventricoli.

L’alcolizzazione del setto interventricolare per eliminare l’ostruzione all’efflusso del sangue dal ventricolo sinistro determinato dall’ispessimento del setto nei casi in cui non sia possibile l’intervento chirurgico; questa procedura prevede l’iniezione di alcool in un ramo delle coronarie che irrora la porzione di setto responsabile dell’ostruzione.

L’impianto di un defibrillatore automatico (ICD) nei pazienti ad alto rischio di morte cardiaca improvvisa.

In presenza di sintomi di scompenso cardiaco: diuretici, anti-aldosteronici.

In caso di scompenso cardiaco refrattario: trapianto cardiaco.

 

Cardiomiopatia restrittiva

Cardiomiopatia restrittiva

 

La cardiomiopatia restrittiva è una condizione caratterizzata dall’aumento della rigidità delle pareti ventricolari, per cui il cuore non riesce a riempirsi adeguatamente (vi è cioè una “disfunzione diastolica”): la conseguenza è una diminuzione della quantità di sangue pompata (insufficienza cardiaca “diastolica” o “con conservata frazione di eiezione”). Nelle fasi iniziali la capacità del cuore di contrarsi (funzione sistolica) può risultare normale, ma con il progredire della patologia in genere si registra un deterioramento anche della funzione sistolica.

Che cos’è la cardiomiopatia restrittiva?

La cardiomiopatia restrittiva si manifesta spesso con un’insufficienza cardiaca rapidamente progressiva refrattaria alla terapia, specialmente in caso di amiloidosi. Solitamente il cuore ha delle dimensioni normali o solo leggermente aumentate. Purtroppo la prognosi, che è strettamente collegata alla causa alla base della cardiomiopatia, si rivela spesso sfavorevole e la sopravvivenza media dopo la diagnosi è di 9 anni.

Da cosa può essere causata la cardiomiopatia restrittiva?

Per circa il 50% dei casi la cardiomiopatia restrittiva risulta derivare da patologie specifiche, mentre nel resto dei casi è di natura idiopatica. È l’infiltrazione determinata dall’amiloidosi la causa più comune di cardiomiopatia restrittiva. Ma le cause possono anche essere l’interessamento cardiaco da sindrome da carcinoide, la fibrosi endomiocardica, la sindrome di Loeffler, la sindrome ipereosinofila, l’emocromatosi, la radioterapia e la chemioterapia con antracicline, la sclerodermia, la sarcoidosi, le malattie da accumulo. È possibile, inoltre, che la cardiomiopatia restrittiva compaia dopo un trapianto di cuore.

Con quali sintomi si manifesta la cardiomiopatia restrittiva?

Il quadro clinico della cardiomiopatia restrittiva è caratterizzato prevalentemente dalle manifestazioni dello scompenso cardiaco. Solitamente la comparsa dei sintomi è lenta, ma in alcuni casi possono presentarsi anche improvvisamente apparendo gravi fin dai primi momenti. I più diffusi sono tosse, difficoltà respiratorie e fiato corto (durante l’attività fisica o da sdraiati di notte), stanchezza e scarsa resistenza all’esercizio fisico, inappetenza, gonfiore addominale, dei piedi e delle caviglie e battiti cardiaci rapidi o irregolari. A questi disturbi si possono associare dolori al petto, perdita di concentrazione, riduzione della quantità di urina prodotta e, negli adulti, bisogno di urinare anche di notte.

Come prevenire la cardiomiopatia restrittiva?

Per gran parte delle situazioni non è possibile fare molto per prevenire la cardiomiopatia restrittiva. Talvolta il trattamento precoce della sarcoidosi e dell’emocromatosi, così come delle malattie da accumulo può evitarne l’insorgenza.

Diagnosi

Il medico può avere un sospetto di una cardiomiopatia restrittiva se durante una visita rileva turgore delle vene del collo o ingrossamento del fegato, rumori polmonari e cardiaci anomali, accumulo di fluidi nelle zone declivi, e il paziente manifesta sintomi da scompenso cardiaco.

Per una conferma della diagnosi si possono prescrivere alcune analisi come:

Analisi del sangue: che possono evidenziare ipereosinofilia (ossia importante aumento dei leucociti eosinofili), in caso di sindrome ipereosinofila o sindrome di Loeffler; ferritina assai alta, sideremia e percentuale di saturazione della transferrina elevate nell’emocromatosi; componenti monoclonali, in caso di amiloidosi; deficit di enzimi specifici nelle malattie da accumulo; elevazione del BNP (brain natriuretic peptide).

ECG: registra l’attività elettrica del cuore. Può mostrare molteplici alterazioni, tra cui bassi voltaggi nell’amiloidosi, e aritmie, come la fibrillazione atriale.

Ecocardiogramma: è un test basato su un’immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio trasmette un fascio di ultrasuoni al torace, utilizzando una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). Mostra segni di disfunzione diastolica, dilatazione degli atri e, non di rado, aumento degli spessori parietali associato ad alterata ecogenicità in caso di patologie infiltrative.

Cateterismo cardiaco: metodologia invasiva basata sull’introduzione di un piccolo tubo (catetere) in un vaso sanguigno; il catetere viene poi spinto fino al cuore e permette l’acquisizione di informazioni importanti sul flusso e sull’ossigenazione del sangue. Le pressioni di riempimento sono elevate e la portata cardiaca (la quantità di sangue pompata dal cuore) è ridotta.

Biopsia endomiocardica: viene svolta mentre si esegue il cateterismo cardiaco tramite l’utilizzo di uno strumento chiamato biotomo. Di solito le biopsie vengono effettuate sul lato destro del setto interventricolare. Risulta utile per escludere patologie infiltrative come l’amiloidosi o infiammatorie come la sarcoidosi.

Risonanza magnetica (RM) cardiaca con mezzo di contrasto: vengono prodotte immagini dettagliate della struttura del cuore e dei vasi sanguigni tramite la registrazione di un segnale emesso dalle cellule sottoposte a un intenso campo magnetico. Grazie alla sua capacità di dare informazioni sulla struttura del miocardio, rende possibile a volte individuare la causa della cardiomiopatia restrittiva, come nel caso dell’amiloidosi, dell’emocromatosi o della sarcoidosi.

RX torace (radiografia del torace): può rendere possibile l’individuazione della presenza di congestione polmonare (accumulo di liquidi nei polmoni); nel caso di sarcoidosi, può documentare ingrandimento bilaterale dei linfonodi localizzati a livello dell’ilo polmonare.

Trattamenti

Quando si è in grado di individuare la causa della cardiomiopatia restrittiva, il suo trattamento può consentire di controllare la malattia. Purtroppo, però, i trattamenti davvero efficaci sono pochi. Gli obiettivi principali sono il controllo dei sintomi e il miglioramento della qualità di vita del paziente. Per raggiungere tali obiettivi possono essere prescritti:

diuretici, in caso di accumulo di liquidi

farmaci per controllare eventuali irregolarità del battito cardiaco

farmaci anticoagulanti

 

 

Cardiomiopatie

Cardiomiopatie

 

Le cardiomiopatie sono patologie che interessano il muscolo cardiaco riducendo l’efficienza del cuore, che fatica a pompare il sangue nel resto del corpo.

Che cosa sono le cardiomiopatie?

Le cardiomiopatie sono suddivise in tre tipi: dilatative, ipertrofiche e restrittive. Le cardiomiopatie dilatative sono le più comuni: sono caratterizzate da problemi al ventricolo sinistro che si dilata e non riesce a pompare efficacemente il sangue. Le cardiomiopatie ipertrofiche sono invece correlate a una crescita o a un anomalo ispessimento del muscolo cardiaco che compromette la funzionalità del cuore. Nelle forme restrittive, infine, il muscolo cardiaco perde elasticità e si irrigidisce. Una cardiomiopatia può comportare alcune complicazioni fra cui si possono includere lo scompenso cardiaco, la formazione di trombi, problemi alle valvole cardiache, morte improvvisa.

Da cosa possono essere causate le cardiomiopatie?

Più di metà dei casi di cardiomiopatia dilatativa – soprattutto nelle età avanzate – viene determinata da una causa di tipo ischemico (un precedente infarto miocardico o una malattia delle coronarie); nelle fasce di età più giovani è più comune la forma cosiddetta idiopatica (cioè di cui non si conosce la causa); in una minoranza di queste forme viene riscontrato un aspetto ereditario; altre cause sono associate all’ipertensione, a malattie delle valvole cardiache, a tachicardie molto rapide e prolungate, all’abuso di alcool e di droghe (cocaina, eroina, anfetamine), ad alcuni farmaci chemioterapici; forme più rare sono correlate all’infezione da HIV e ad altre malattie infettive. Le forme ipertrofiche hanno per lo più un’origine genetica. Non sono molto diffuse le forme restrittive: alcune sono determinate da un’infiltrazione del muscolo cardiaco, come l’amiloidosi, l’emocromatosi, la sarcoidosi; altre forme sono definite idiopatiche (non se ne conosce la causa).

Con quali sintomi si manifestano le cardiomiopatie?

Nelle loro fasi iniziali le cardiopatie possono rimanere asintomatiche, ma con il progredire della malattia ci potrebbero essere dei disturbi legati all’insufficienza cardiaca, come difficoltà respiratorie (sia sotto sforzo che a riposo), gonfiori a gambe, caviglie e piedi, dilatazioni dell’addome dovute all’accumulo di fluidi, tosse, affaticamento, battiti irregolari o episodi di palpitazioni, vertigini e svenimenti. Questi sintomi generalmente hanno la tendenza a peggiorare nel tempo indipendentemente dal tipo di cardiomiopatia.

Come si possono prevenire le cardiomiopatie?

La migliore prevenzione è rappresentata da un corretto stile di vita e dall’eliminazione dei fattori di rischio: condurre una vita sana, fare regolarmente attività fisica (almeno mezz’ora di camminata a passo rapido tre volte la settimana), seguire un regime alimentare sano (non esagerare con il sale, consumare tanta frutta, verdura, pesce, pochi grassi animali, cibi sani e semplici, pochi cibi “industriali”), mantenere un peso corretto (l’eccesso di peso affatica il cuore), evitare tabacco e sostanza nocive come cocaina, anfetamina, anabolizzanti, droghe, evitare l’eccesso di alcol; curare scrupolosamente le condizioni che costituiscono un “fattore di rischio” per il cuore, come ipertensione arteriosa, diabete mellito, elevati livelli di colesterolo nel sangue.

Diagnosi

La diagnosi di cardiomiopatia è basata su un’accurata visita medica in cui il medico indagherà anche sulla presenza di eventuali problemi cardiologici in famiglia.

Al termine della visita il medico potrebbe prescrivere:

una radiografia del torace

un elettrocardiogramma

un ecocardiogramma

un test da sforzo

una scintigrafia miocardica

una risonanza magnetica cardiaca

esami del sangue

 

In base ai risultati di questi esami potrebbe risultare necessario eseguire ulteriori esami di secondo livello, come coronarografia, studio emodinamico, biopsia miocardica.

Trattamenti

Il trattamento più idoneo dipende dal tipo di cardiomiopatia e dal tipo di disturbo presente. Lo scopo è però sempre ridurre i sintomi, prevenire il peggioramento della situazione e ridurre il rischio di complicazioni.

In situazione di cardiomiopatia dilatativa potrebbe essere necessario assumere farmaci (come ACE-inibitori, antagonisti del recettore dell’angiotensina, beta-bloccanti, diuretici e digossina), sottoporsi a interventi chirurgici per l’impianto di particolari pacemaker o defibrillatori, o iniziare un trattamento combinato farmaci-intervento.

In caso di cardiomiopatia ipertrofica si potrebbero prescrivere beta-bloccanti, calcio-antagonisti o particolari antiaritmici. Nel caso in cui il trattamento farmacologico non risultasse sufficiente potrebbe essere necessario un intervento chirurgico correttivo o l’impianto di un pacemaker o di un defibrillatore.

Il trattamento delle cardiomiopatie restrittive ha essenzialmente come obiettivo il miglioramento dei sintomi. Il medico può consigliare di ridurre il consumo di sale e di tenere quotidianamente sotto controllo il peso. Potrebbe essere necessario prescrivere diuretici o farmaci per ridurre la pressione e tenere sotto controllo il battito cardiaco. Nel caso in cui venisse identificata la causa della cardiomiopatia, verranno prescritti anche trattamenti specifici contro la problematica sottostante.

Nei casi più gravi in cui la malattia progredisce nonostante i trattamenti potrebbe essere necessario un trapianto o l’impianto di un dispositivo di assistenza ventricolare (VAD).

Displasia o cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro (ARVD/C)

Displasia o cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro (ARVD/C)

 

Che cos’è e come si manifesta?

La displasia o cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro (ARVD/C) è una patologia che colpisce il muscolo cardiaco (soprattutto a carico del ventricolo destro) caratterizzata da anomalie funzionali e strutturali dovute alla sostituzione del miocardio (il normale tessuto muscolare cardiaco) con tessuto adiposo o fibro-adiposo. Alla base della patologia si trovano diverse anomalie genetiche che causano alterazioni dell’organizzazione dell’assetto cellulare cardiaco che porta alle suddette modificazioni anatomiche.

Dal punto di vista clinico si verificano manifestazioni di tipo aritmico e disfunzionale con carattere progressivo. Questo carattere progressivo della patologia ha come conseguenza il fatto che i pazienti spesso presentano sintomi eterogenei. I più comuni sono palpitazioni, dispnea e sincope.

Nel 30-50% dei casi ha una distribuzione familiare, con trasmissione sia autosomica dominante che recessiva.

Considerando la presentazione clinica eterogenea e la distribuzione segmentale della sostituzione adiposa che rende le indagini bioptiche poco sensibili, risulta difficile stimare in modo accurato la prevalenza di questa condizione.

Le alterazioni tissutali si concentrano prevalentemente nell’area compresa tra il tratto di efflusso del ventricolo destro, l’apice e l’anello tricuspidalico (il cosiddetto triangolo della displasia).

Come effettuare le diagnosi

Sono stati formulati criteri diagnostici che comprendono:

Elementi di storia familiare

ECGgrafici, aritmici, strutturali e istologici

Holter ECG

Ecocardiogramma

Risonanza magnetica nucleare cardiaca

Si può proporre uno studio elettrofisiologico (SEF) per la valutazione della suscettibilità aritmica ventricolare: è possibile determinare quale sia il tipo di aritmia inducibile, la morfologia e se essa sia o no tollerata emodinamicamente. È inoltre utile per la distinzione tra le aritmie idiopatiche del ventricolo destro, con decorso benigno, e la ARVD/C.

Trattamenti

La terapia della ARVD/C  ha come obiettivo innanzitutto la protezione dal rischio aritmico.

Sarà necessario cambiare lo stile di vita, per cui verranno escluse attività fisiche rilevanti, ed effettuare un’attenta valutazione della terapia farmacologica. Quest’ultima include betabloccanti, amiodarone, sotalolo.

È utile effettuare uno studio elettrofisiologico con ablazione transcatetere in caso di aritmie non controllabili con il trattamento medico, tachicardie ventricolari monomorfe con origine ben localizzabile, e per limitare gli eventuali interventi di un defibrillatore impiantato.

In relazione all’impianto di un defibrillatore non esiste un’univoca stratificazione del rischio. Viene proposto a pazienti “sopravvissuti” a un arresto cardiaco, o con aritmie refrattarie al trattamento medico, specialmente se giovani, e in caso di coinvolgimento di entrambi i ventricoli.

Come prevenire

La malattia riconosce un’eziologia genetica e pertanto non può essere prevenuta. Una volta effettuata la diagnosi, il corretto procedimento prevede un’adeguata stratificazione del rischio (in base a criteri anatomici, elettrocardiografici e clinici) al fine di decidere la migliore strategia terapeutica.

Endocardite infettiva

Endocardite infettiva

 

L’endocardite è un’infiammazione del rivestimento interno del cuore (endocardio). In genere l’endocardite viene provocata da un’infezione, solitamente batterica, ma può essere anche di natura non infettiva, per esempio di origine reumatica. Se non viene curata, si può avere un grave danno ai tessuti del cuore e alle valvole cardiache.

Che cos’è l’endocardite infettiva?

L’endocardite è un processo infiammatorio che colpisce l’endocardio, il sottile rivestimento delle pareti interne delle cavità cardiache. L’infiammazione può coinvolgere le pareti degli atri e dei ventricoli, per cui in questo caso parliamo di endocardite parietale, oppure, molto più frequentemente le valvole, per cui si parla di endocardite valvolare.

L’endocardite può essere la causa di alterazioni permanenti delle strutture valvolari, provocandone il restringimento (stenosi) o l’incontinenza (insufficienza) o entrambe. Colpisce più frequentemente i soggetti che hanno un difetto congenito e può colpire anche protesi, come valvole cardiache artificiali, soprattutto nel primo anno dopo l’impianto.

Da cosa può essere causata l’endocardite infettiva?

Diverse cause possono determinare l’endocardite. L’endocardite reumatica è provocata dal processo infiammatorio dovuto alla malattia reumatica (una sindrome autoimmune che può essere scatenata da infezioni streptococciche). Questo porta alla formazione di noduli che coinvolgono principalmente la valvola mitrale e aortica.

Si ha endocardite infettiva nelle situazioni in cui i microrganismi che provengono da altre parti del corpo, come bocca, tonsille, intestino, pelle, vie urinarie, si inseriscono nel torrente ematico ed arrivano al cuore. Più comunemente viene provocata da batteri – si parla di endocardite batterica – che, in presenza di deficit del sistema immunitario o di difetti congeniti, possono insediarsi nell’endocardio e originare lesioni che vengono chiamate “vegetazioni”: si tratta infatti di escrescenze formate da materiale fibrinoso dentro cui si annidano i batteri. Dalle vegetazioni possono staccarsi frammenti che attraverso il torrente ematico possono raggiungere altri distretti, disseminando l’infezione.

Fra altri possibili fattori di rischio per l’endocardite infettiva troviamo le parodontopatie, le malattie a trasmissione sessuale, cateteri vascolari infetti, l’uso di siringhe non sterili e infette, tatuaggi e piercing praticati con attrezzature non sterili.

Con quali sintomi si manifesta l’endocardite infettiva?

L’endocardite può essere caratterizzata da un decorso lento oppure da un esordio acuto. I sintomi variano a seconda delle cause e delle forme.

L’alterazione della funzionalità delle valvole cardiache può comportare:

soffi cardiaci, determinati dalle alterazioni del flusso sanguigno

disturbi del ritmo cardiaco

Nelle endocarditi batteriche i sintomi sono più evidenti e a rapida evoluzione a causa del danneggiamento delle valvole cardiache con possibile ulcerazione e perforazione. Essi includono:

Febbre

Brividi

Stanchezza

Mal di testa

Dolore alle articolazioni e ai muscoli

Sudorazione notturna

Mancanza di respiro

Pallore

Tosse persistente

Gonfiore a piedi, gambe e addome (edema)

Perdita di peso

Sangue nelle urine

Dolorabilità e ingrossamento della milza (splenomegalia)

Noduli di Osler, piccoli rilievi dolenti, di colore rosso, sulla punta delle dita delle mani o dei piedi.

Macchie di colore violastro o rosso (petecchie) sulla pelle, negli occhi o dentro la bocca.

Come si può prevenire l’endocardite infettiva?

Per i pazienti a rischio (portatori di protesi valvolari, cardiopatie congenite, con endocardite pregressa), prima di effettuare delle manovre odontoiatriche che richiedono la manipolazione del tessuto gengivale o che prevedono la perforazione della mucosa orale, è consigliata la profilassi antibiotica, che rappresenta uno scudo contro l’infezione.

Per i pazienti a rischio è consigliabile porre particolare attenzione all’igiene orale, usando regolarmente spazzolini, filo interdentale e collutori.

Si dovrebbero inoltre evitare piercing e tatuaggi o nel caso bisognerebbe affidarsi a operatori che rispettano rigide misure igieniche (attrezzature e ambienti sterili). Nel caso di ferite o di infezioni della pelle è necessario consultare il medico per concordare un’eventuale terapia antibiotica.

È anche consigliabile sottoporsi a vaccinazione antinfluenzale, per evitare le possibili complicazioni dell’influenza, che possono facilitare lo sviluppo di un’endocardite infettiva.

Diagnosi

Il medico può avere il sospetto di un’endocardite in seguito al riscontro, all’auscultazione cardiaca, di un soffio di nuova comparsa. Il soffio cardiaco è un rumore determinato dalla turbolenza del flusso sanguigno dovuta alle alterazioni strutturali delle valvole. Successivamente, il medico può utilizzare altri strumenti per approfondire le indagini. Può prescrivere:

Esami del sangue, per la ricerca di batteri attraverso esame colturale del sangue (emocoltura) o per l’evidenziazione di un aumento degli indici infiammatori (tipicamente velocità di eritrosedimentazione, VES, e proteina C reattiva, PCR) o di uno stato di anemia (riduzione dei valori di emoglobina), alterazioni che sono di solito presenti in caso di endocardite.

Ecocardiogramma transtoracico: è un test basato sull’immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio trasmette un fascio di ultrasuoni al torace, utilizzando una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). È un esame fondamentale. Rende possibile l’individuazione della presenza di vegetazioni e dell’eventuale malfunzionamento delle valvole cardiache.

Ecocardiogramma transesofageo: in questo caso la sonda si introduce dalla bocca e si spinge in avanti fino a raggiungere l’esofago. Consente una migliore visualizzazione delle valvole e delle strutture paravalvolari.

Elettrocardiogramma: registra l’attività elettrica del cuore e permette di individuare, tra le altre cose, disturbi del ritmo cardiaco.

Radiografia del torace (RX torace): può dare diverse informazioni, ad esempio può rivelare se il cuore è ingrossato, segno indicativo di insufficienza cardiaca, o se l’infezione si è estesa ai polmoni.

Risonanza magnetica cardiaca (RM) con mezzo di contrasto: produce immagini dettagliate utilizzando la registrazione di un segnale emesso dalle cellule sottoposte a un intenso campo magnetico. Permette la visualizzazione molto accurata del cuore e delle strutture limitrofe e fornisce informazioni preziose per la terapia.

Trattamenti

L’endocardite batterica viene curata con una terapia antibiotica mirata. Il trattamento dura diverse settimane.

Se l’endocardite ha provocato danni alle valvole cardiache, può essere necessario intervenire chirurgicamente per “riparare” i danni causati dall’infezione oppure, quando ciò non è possibile, per sostituire la valvola.

 

 

Fenomeno di Raynaud

Fenomeno di Raynaud

 

Il Fenomeno di Raynaud è caratterizzato da un eccessivo raffreddamento e cambiamento di colore di alcune aree del corpo – solitamente le dita, la punta del naso e le orecchie – in presenza di basse temperature o in condizioni di stress emotivo.

Che cos’è il Fenomeno di Raynaud?

Il Fenomeno di Raynaud è rappresentato dall’eccessivo e anomalo restringimento dei vasi sanguigni (vasospasmo) in presenza di stimoli scatenanti (sbalzi di temperatura, emozioni intense), che alterano il flusso sanguigno nelle zone periferiche del nostro organismo, quali le dita. Nei casi più gravi, la riduzione della circolazione a livello delle dita può diventare cronica e comportare la formazione di ulcere.

Da cosa può essere causato il Fenomeno di Raynaud?

Alla base del Fenomeno di Raynaud sembra ci sia l’eccessiva reattività dei vasi sanguigni alle temperature e allo stress, che comporta una riduzione del flusso di sangue alle estremità del corpo per limitare la dispersione di calore. In realtà sono due le forme di questa condizione. La più diffusa è la forma primaria, la cui causa è ignota e non è correlata a nessuna malattia sistemica che possa provocare il restringimento dei vasi sanguigni; la forma secondaria è invece correlata a una condizione medica sottostante (per es. la sclerodermia, la connettivite mista, la poli/dermatomiosite) e fattori predisponenti noti tra cui per es. l’utilizzo di strumenti lavorativi freddi o vibranti, il fumo, traumi alle mani o ai polsi, l’assunzione di alcuni farmaci (ad esempio i beta bloccanti), l’esposizione a cloruro di vinile e disturbi della tiroide.

Con quali sintomi si manifesta il Fenomeno di Raynaud?

Il Fenomeno di Raynaud si può facilmente riconoscere in base a un tipico cambiamento di colore che avviene in tre fasi: le dita diventano prima bianche per lo spasmo dei vasi sanguigni, poi blu nel momento in cui si ripristina la circolazione venosa, e infine rosse quando anche il sangue arterioso torna a circolare. La frequenza, durata e gravità dello spasmo dei vasi sanguigni sono variabili, e si verificano in genere anche intorpidimento e alterazione della sensibilità tattile.

Come si può prevenire il Fenomeno di Raynaud?

Il rischio di comparsa di episodi di Fenomeno di Raynaud può essere ridotto con un’adeguata protezione dal freddo, per esempio optando per un abbigliamento adatto durante l’inverno, coprendosi bene anche quando si sta negli ambienti domestici con aria condizionata, utilizzando dei guanti per armeggiare nel frigorifero o nel congelatore. Si consiglia inoltre di sospendere i fattori scatenanti quali il fumo, i farmaci (in particolare beta bloccanti e pillola anti-concezionale), l’utilizzo di strumenti vibranti quali il trapano, mantenere un’attività fisica adeguata.

Diagnosi

Per distinguere la forma primaria da quella secondaria di Fenomeno di Raynaud il medico ha la necessità di raccogliere informazioni cliniche complete al momento della visita, e può sottoporre il paziente a un esame detto capillaroscopia periungueale: eseguito appunto a livello della base delle unghie delle mani, questo esame consente l’analisi dei vasi sanguigni per valutarne lo stato di salute.

Nelle situazioni in cui c’è il sospetto di una forma secondaria, possono essere prescritti altri esami, variabili in base alla patologia di cui si vuole verificare la presenza, e nel sospetto di una malattia autoimmune correlata al Fenomeno di Raynaud si possono per esempio richiedere ANA ed anti-ENA.

Trattamenti

Il trattamento del Fenomeno di Raynaud viene stabilito in base alla sua gravità e all’eventuale presenza di patologie sottostanti. In molti casi, più che di una disabilità si tratta di un semplice disturbo fastidioso, per cui se i sintomi sono lievi può essere sufficiente coprire le estremità in modo adeguato ed evitare gli sbalzi di temperatura. Bisogna inoltre eliminare i fattori predisponenti, se possibile, per esempio cambiando mansioni lavorative se il paziente è esposto a basse temperature o all’utilizzo di strumenti vibranti, sospendendo l’abitudine del fumo ed eliminando eventuali farmaci che possono causare il Fenomeno di Raynaud.

In casi più complicati è possibile assumere farmaci per ridurre il numero di attacchi, prevenire il danno ai tessuti e trattare eventuali patologie sottostanti.

Tra i farmaci che possono essere utilizzati per promuovere la buona circolazione possono essere prescritti:

calcio-antagonisti

alfa-bloccanti

vasodilatatori

A volte è possibile che sia necessario effettuare altri trattamenti più invasivi come interventi chirurgici ai nervi (es. sindrome del tunnel carpale) se considerati fattore scatenante, e in caso di comparsa di ulcere sarà necessario iniziare infusioni di vasodilatatori e medicazioni accurate.

Fibrillazione atriale (FA)

Fibrillazione atriale (FA)

 

La fibrillazione atriale è l’aritmia che più frequentemente colpisce la popolazione generale e la sua prevalenza tende a crescere con l’avanzare dell’età. Pur non trattandosi di un’aritmia di per sé pericolosa per la vita, può esporre a delle complicanze che, in alcuni casi, possono risultare molto invalidanti.

Le tre tipologie di fibrillazione (le tre P-> Parossistica, Persistente, Permanente)

La fibrillazione atriale è un’aritmia sopraventricolare scatenata da impulsi elettrici provenienti da cellule muscolari miocardiche presenti a livello della giunzione tra le quattro vene polmonari e l’atrio sinistro.

Nella fibrillazione atriale l’attività elettrica degli atri risulta completamente disorganizzata e non è collegata ad un’attività meccanica efficace. Le onde di depolarizzazione atriale, o onde f, hanno una piccola ampiezza e una frequenza molto elevata (400-600 impulsi al minuto). In queste condizioni il nodo atrioventricolare (NAV) riceve dall’atrio molti più impulsi di quanti sia in grado di condurne, esercitando quindi una funzione di filtro che invia ai ventricoli un numero di battiti non eccessivamente elevati: numerosi impulsi penetrano, infatti, solo parzialmente nel NAV e restano bloccati al suo interno. Questa variabilità della conduzione atrioventricolare rende la contrazione dei ventricoli irregolare. Gli aspetti elettrocardiograficamente rilevanti della fibrillazione atriale saranno quindi la presenza di onde f e l’irregolarità dei battiti.

Dal punto di vista clinico la fibrillazione atriale viene suddivisa in base al modo di presentazione in:

Parossistica: quando gli episodi si presentano e si risolvono spontaneamente in un periodo di tempo inferiore a una settimana.

Persistente: quando l’episodio aritmico non si interrompe spontaneamente ma solo in conseguenza di interventi terapeutici esterni.

Permanente: quando non siano ritenuti opportuni tentativi di cardioversione, o gli interventi terapeutici si siano dimostrati inefficaci.

Chi colpisce e come si manifesta?

La fibrillazione atriale colpisce lo 0,5 -1% della popolazione generale con una prevalenza che aumenta con l’età (0,1% sotto i 55 anni, 8-10% oltre gli 80). La maggior parte dei pazienti colpiti ha dunque più di 65 anni; generalmente gli uomini sono più colpiti rispetto alle donne.

In alcune situazioni fa la sua comparsa in assenza di apparenti condizioni favorenti, ossia in assenza di una cardiopatia strutturale o di condizioni sistemiche (come l’ipertiroidismo) che la possano provocare. In questi casi, che risultano in genere meno del 30%, si parla di fibrillazione isolata. Esistono anche delle condizioni che possono facilitare la fibrillazione atriale: ipertensione arteriosa (presente in circa il 50% dei casi), insufficienza cardiaca, diabete mellito, patologie delle valvole cardiache, esiti di chirurgia cardiaca.

La fibrillazione atriale viene spesso collegata a sintomi, tra cui i più frequenti sono: palpitazioni, dispnea, debolezza o affaticabilità, raramente sincope, dolore toracico. In alcuni casi è asintomatica o, anche se sono presenti dei sintomi, questi non vengono riconosciuti dal paziente, che si limita ad adeguare il proprio stile di vita. Un esempio è la riduzione della resistenza allo sforzo.

Oltre ai sintomi, a volte invalidanti, la fibrillazione atriale può determinare il rischio di eventi trombotici, poiché l’immobilità meccanica degli atrii facilita la formazione di coaguli che successivamente possono migrare nel circolo cerebrale e provocare ischemie e ictus cerebrale.

La mortalità cardiovascolare è aumentata nei soggetti colpiti da fibrillazione atriale e la qualità della vita è ridotta. Inoltre la persistenza della fibrillazione atriale comporta un rimodernamento degli atrii, che assumono caratteristiche elettriche, anatomiche e strutturali (dilatazione, fibrosi) tali da favorire il perpetuarsi dell’aritmia.

Come effettuare la diagnosi

Gli strumenti diagnostici sono:

elettrocardiogramma,

Holter ECG 24 ore,

che integrano una visita aritmologica.

In alcuni casi, se esami semplici come quelli suddetti non risultano sufficienti, è possibile eseguire indagini più approfondite come ad esempio lo studio elettrofisiologico endocavitario.

Trattamenti

Nel percorso terapeutico della fibrillazione atriale bisogna valutare la modalità di presentazione (parossistica, persistente, permanente), la presenza di una cardiopatia strutturale o di altre condizioni favorenti.

È necessario inoltre riconoscere il momento di insorgenza e la presenza di una grave condizione di instabilità secondaria alla fibrillazione atriale.

In base a queste valutazioni sarà possibile decidere riguardo ad un tentativo di ripristino del ritmo sinusale.

In genere al primo episodio si procede a cardioversione, a prescindere dai sintomi. Se l’episodio ha un’insorgenza databile a meno di 24-48 ore è possibile la cardioversione (farmacologica o elettrica).

In presenza di instabilità emodinamica determinata dalla fibrillazione si deve optare in genere per una cardioversione elettrica immediata. La cardioversione elettrica è una procedura con cui si può interrompere l’aritmia con una sorta di “reset” del battito.

Se l’insorgenza non è recente o non è databile e l’aritmia è ben tollerata, in genere si rimanda la cardioversione (generalmente elettrica) dopo un periodo di terapia anticoagulante di almeno 3-4 settimane. In base a eventuali recidive o alla presenza di cardiopatia si può intraprendere una profilassi farmacologica antiaritmica.

In caso in cui la cardioversione sia inefficace, in base ai sintomi, all’età e al contesto clinico generale, è possibile valutare l’eventuale passaggio a metodiche terapeutiche invasive (ablazione transcatetere/chirurgica).

La procedura di ablazione transcatetere della fibrillazione atriale è complessa poiché richiede il passaggio del catetere ablatore dalle sezioni destre del cuore (cui si arriva per via venosa) a quelle di sinistra. Tale accesso si ottiene attraverso una puntura della membrana del setto interatriale con un ago dedicato. Una volta raggiunto poi l’atrio sinistro si procede all’isolamento elettrico delle quattro vene polmonari con abolizione dei punti responsabili dell’innesco della fibrillazione atriale.

Come prevenire

La fibrillazione atriale a volte risulta secondaria all’ipertensione arteriosa o ad altre cardiopatie, come ad esempio scompenso cardiaco, cardiopatia ischemica. Risulta dunque necessario, per quanto possibile, svolgere dei controlli regolari del profilo pressorio e, quando presenti, impostare un corretto iter terapeutico delle cardiopatie, affidandosi al Medico Cardiologo competente, al fine di prevenire le ricorrenze dell’aritmia.

Fibrillazione ventricolare (FV)

Fibrillazione ventricolare (FV)

 

La fibrillazione ventricolare è un’aritmia caratterizzata da un ritmo cardiaco caotico e disorganizzato che trae origine dai ventricoli. La rapidità e la disorganizzazione dell’impulso elettrico rendono il cuore incapace di espellere il sangue all’interno del circolo arterioso, comportando un arresto cardiocircolatorio.

Di cosa si tratta e da cosa può essere causata?

La fibrillazione ventricolare è rappresentata da un ritmo cardiaco caotico e disorganizzato originato dai ventricoli. La rapidità e la disorganizzazione dell’impulso elettrico rendono le contrazioni miocardiche inefficaci dal punto di vista emodinamico (il cuore non capace di espellere il sangue all’interno del circolo arterioso), comportando pertanto la configurazione del quadro di arresto cardiocircolatorio: la pressione arteriosa crolla a zero e il paziente perde coscienza. Se non viene prontamente trattata con manovre rianimatorie e defibrillazione esterna, questa aritmia può portare rapidamente al decesso.

Ci possono essere diverse cause della fibrillazione ventricolare. La causa più frequente è l’ischemia miocardica acuta (infarto del miocardio): in una piccola percentuale di casi può rappresentare un inizio di infarto miocardico. In secondo luogo, si può verificare la fibrillazione ventricolare in pazienti colpiti da cardiopatie strutturali predisposte alle aritmie ventricolari (come la cardiomiopatia dilatativa, la cardiomiopatia ipertrofica, displasia aritmogena del ventricolo destro, non compattazione ventricolare).

In alcuni casi può colpire anche pazienti con cuore strutturalmente normale ma affetti da malattie aritmogene ereditarie (come sindrome del QT lungo, sindrome di Brugada, tachicardia ventricolare polimorfa catecolaminergica); parliamo di fibrillazione ventricolare idiopatica quando la fibrillazione ventricolare non riconosce una causa scatenante specifica.

Diagnosi

Se non viene trattata, la fibrillazione ventricolare può portare al decesso anche entro pochissimi minuti. Quindi è possibile effettuare la diagnosi solo nei pochi pazienti che presentano l’aritmia in ospedale e sono monitorizzati, oppure nei rari casi in cui il paziente è rianimato in ambiente extraospedaliero e viene eseguito ecg o monitor del defibrillatore.

Trattamenti

A meno che non si possa ben riconoscere ed eliminare con certezza la causa della fibrillazione ventricolare (per esempio con la riperfusione miocardica in caso di infarto, o l’ablazione transcatetere in caso di degenerazione di tachicardie ventricolari monomorfe recidivanti), i pazienti sopravvissuti devono essere sottoposti a impianto di defibrillatore cardiaco in prevenzione secondaria

Infarto

Infarto

 

Che cos’è l’infarto?

Con il termine infarto si indica la morte o necrosi di un tessuto o di un organo che non riescono ad avere un adeguato apporto di sangue e ossigeno dalla circolazione arteriosa a loro dedicata. Quando un vaso arterioso non ha un buon flusso, o non è capace di aumentarlo a seconda delle esigenze del territorio che irrora, si manifesta l’ischemia dei tessuti a valle del vaso o l’infarto stesso, nel caso in cui l’ischemia venga sufficientemente prolungata da provocare necrosi.

Quali sono le caratteristiche dell’infarto?

È possibile che l’infarto si manifesti in molti distretti dell’organismo umano; tuttavia con questo termine si indica più comunemente l’infarto cardiaco, che colpisce il tessuto muscolare del cuore o miocardio, e l’infarto cerebrale, noto comunemente come ictus ischemico. Insieme, l’infarto cardiaco e cerebrale rappresentano anche la più comune causa di morte dei paesi sviluppati. Se l’evento non ha avuto un esito fatale, la necrosi del tessuto colpito da infarto viene riparata attraverso un processo di cicatrizzazione. In questo modo l’organo interessato perde una parte della sua funzionalità.

Tra le forme più frequenti di infarto troviamo:

L’infarto del miocardio

L’infarto cerebrale

L’infarto intestinale

L’infarto polmonare

Da cosa può essere causato l’infarto?

La causa più frequente di infarto cardiaco o cerebrale è la malattia aterosclerotica delle arterie che portano il sangue a cuore e cervello. L’aterosclerosi interessa gli strati più interni delle pareti vascolari ed è caratterizzata dalla formazione di lesioni o placche ricche di grasso (colesterolo), cellule di parete in fase di proliferazione e cellule infiammatorie.

Le placche aterosclerotiche, che possono essere localizzate o diffuse, comportano spesso il restringimento del lume del vaso e vengono complicate con la formazione di un coagulo sulla loro superficie. Tutto ciò può produrre la brusca occlusione del vaso stesso, determinando un’ischemia prolungata e infarto dei tessuti a valle.

Con quali sintomi si manifesta l’infarto?

Ci sono sintomi specifici per ogni tipo di infarto; per cui è meglio consultare la singola scheda

Quali sono i fattori di rischio?

I fattori di rischio per l’aterosclerosi e l’infarto sono suddivisi in fattori modificabili e fattori non modificabili.

Fattori non modificabili:

Età: il rischio di infarto, come per quasi tutte le patologie cardiovascolari, aumenta con l’avanzare dell’età.

Sesso: l’aterosclerosi e l’infarto sono più frequenti negli uomini che nelle donne, in età giovanile e matura. Dopo la menopausa femminile il rischio di aterosclerosi e infarto è analogo negli uomini e nelle donne.

Familiarità: chi presenta nella propria storia familiare casi di malattia cardiovascolare acuta è maggiormente a rischio di infarto, in particolare se la patologia cardiovascolare del congiunto si è manifestata in età giovanile

Fattori modificabili:

Stile di vita: fra i più importanti fattori di rischio cardiovascolare troviamo sedentarietà e fumo di tabacco. Per questo motivo il metodo migliore per prevenire i problemi cardiovascolari e per tutelare la propria salute è smettere di fumare e avere una vita attiva, facendo regolarmente almeno 20-30 minuti di attività fisica al giorno.

Alimentazione: un’alimentazione con troppe calorie e troppi grassi contribuisce ad aumentare il livello di colesterolo e di altri grassi (lipidi) nel sangue, rendendo molto più probabili l’aterosclerosi e l’infarto. Una dieta sana ed equilibrata risulta essere molto importante per la prevenzione delle malattie cardiovascolari.

Ipertensione arteriosa: ci possono essere varie cause alla base della “pressione alta” o ipertensione arteriosa, che colpisce una larga fetta della popolazione di età superiore ai 50 anni. Si associa ad una aumentata probabilità di sviluppare l’aterosclerosi e le sue complicanze, come l’infarto cardiaco o cerebrale. Condiziona un aumento del lavoro cardiaco che si trasforma col tempo in un progressivo malfunzionamento del cuore e nella comparsa di scompenso cardiocircolatorio.

Diabete: l’eccesso di glucosio nel sangue provoca danni alle arterie e facilita l’aterosclerosi, l’infarto miocardico e cerebrale e il danno di organi importanti come il rene, con la comparsa di insufficienza renale, a sua volta correlata ad aumentato rischio cardiovascolare.

Diagnosi

Per la diagnosi dei vari tipi di infarto, si rimanda alle schede specifiche.

Trattamenti

I trattamenti per l’infarto sono diversi a seconda della sede e delle condizioni mediche generali del paziente, per cui verranno riportati nelle rispettive sezioni.

Per i soggetti colpiti da infarto cardiaco o cerebrale, al trattamento ospedaliero fa seguito la prosecuzione di una terapia medica per bocca al proprio domicilio e la forte raccomandazione alla correzione dei fattori di rischio cardiovascolari modificabili. Inoltre vengono fornite indicazioni su come correggere eventualmente lo stile di vita e il regime alimentare e tali variazioni possono contribuire in modo significativo alla prevenzione di un secondo episodio.

 

 

 

Insufficienza aortica

Insufficienza aortica

 

L’insufficienza aortica è la conseguenza di un difetto di chiusura della valvola aortica, la valvola cardiaca che regola il flusso del sangue dal ventricolo sinistro all’aorta. Quando si verifica questa condizione, una parte del sangue refluisce nel ventricolo sinistro, non permettendo un pompaggio efficiente verso il resto dell’organismo.

Che cos’è l’insufficienza aortica?

Quando la valvola aortica non riesce a chiudersi correttamente parte del sangue pompato dal ventricolo sinistro ritorna indietro. Da ciò ne consegue la presenza di sintomi come affaticamento e fiato corto, ma si possono anche verificare delle condizioni più gravi, come l’endocardite o lo scompenso cardiaco. Solitamente, però, l’insufficienza aortica viene ben tollerata e i sintomi possono anche manifestarsi dopo decenni. Se invece, come a volte capita (per esempio in conseguenza di un’endocardite), compare improvvisamente un’insufficienza aortica grave, si manifestano fin da subito sintomi di uno scompenso cardiaco.

Da cosa può essere causata l’insufficienza aortica?

L’insufficienza aortica può essere determinata da qualunque disturbo che possa danneggiare la valvola aortica. Tra questi sono compresi le cardiopatie congenite, l’invecchiamento, l’endocardite, la dilatazione dell’aorta ascendente, la malattia reumatica, la sindrome di Marfan, la spondilite anchilosante, la sifilide e traumi all’aorta.

Con quali sintomi si manifesta l’insufficienza aortica?

In gran parte dei casi l’insufficienza aortica insorge gradualmente. Il vizio valvolare rimane asintomatico per il tempo in cui il cuore riesce a compensarlo, ma a lungo andare possono manifestarsi sintomi come debolezza e facile faticabilità, fiato corto durante l’esercizio o da sdraiati, fastidio e vero e proprio dolore al petto spesso esacerbati dall’attività fisica, svenimenti, aritmie, palpitazioni e gonfiore a piedi e caviglie.

Come si può prevenire l’insufficienza aortica?

Sebbene nella maggior parte dei casi l’insufficienza aortica non si possa prevenire, esistono alcuni accorgimenti che aiutano a ridurne il rischio:

Cura adeguata dei mal di gola, allo scopo di ridurre il rischio di malattia reumatica (sindrome autoimmune che può essere scatenata da infezioni streptococciche).

Attenzione verso la cura di denti e gengive, in modo da ridurre il rischio di endocardite.

Controllo sempre attivo della pressione arteriosa.

Diagnosi

Una diagnosi precoce consente di intervenire prima che l’insufficienza aortica diventi più grave mettendo a rischio la vita di chi ne soffre.

È possibile avere i primi sospetti se viene riscontrato un soffio al cuore in occasione di una visita medica.

Tra gli esami che possono essere prescritti per verificare l’ipotesi diagnostica sono inclusi:

Ecocardiogramma transtoracico: è un test basato sull’immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio trasmette un fascio di ultrasuoni al torace, utilizzando una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). È un esame fondamentale. Consente la valutazione del meccanismo e dell’entità del rigurgito aortico, oltre che delle dimensioni del ventricolo sinistro e della sua funzione contrattile.

Ecocardiogramma transesofageo: in questo caso si introduce la sonda dalla bocca e la si spinge in avanti fino a raggiungere l’esofago. Consente di visualizzare meglio le valvole e le strutture paravalvolari. Viene suggerito in particolare quando esiste il sospetto di un’endocardite.

RX torace (radiografia del torace): visualizza un ingrandimento dell’ombra cardiaca e spesso una dilatazione dell’aorta ascendente; in condizioni di scompenso cardiaco sono presenti segni di congestione polmonare (accumulo di liquidi nei polmoni).

ECG: registra l’attività elettrica del cuore. Possono essere rilevati segni di ipertrofia e sovraccarico (“iperlavoro”) del ventricolo sinistro.

Test da sforzo: l’esame consiste nella registrazione di un elettrocardiogramma nel momento in cui il paziente sta compiendo un esercizio fisico, generalmente mentre cammina su un tapis roulant o pedala su una cyclette. Può essere svolto allo scopo di confermare la mancanza di sintomi in presenza di insufficienza aortica grave e/o per valutare la risposta emodinamica all’esercizio.

Cateterismo cardiaco: metodologia invasiva basata sull’introduzione di un piccolo tubo (catetere) in un vaso sanguigno; il catetere viene poi spinto fino al cuore e permette l’acquisizione di informazioni importanti sul flusso e sull’ossigenazione del sangue, e sulla pressione all’interno delle camere cardiache e delle arterie e delle vene polmonari. Viene effettuato raramente, in genere quando c’è una discrepanza tra la clinica (in particolare la gravità dei sintomi) e la gravità dell’insufficienza aortica alle indagini non invasive.

Trattamenti

La terapia dell’insufficienza aortica dipende dalla gravità del vizio valvolare, dai sintomi con cui si manifesta e dalla presenza o meno di segni di disfunzione ventricolare sinistra.

Nei casi meno gravi non risulta necessaria nessuna terapia, l’unica cosa da fare è monitorare regolarmente la situazione attraverso una valutazione clinica ed ecocardiogramma in modo da poter intervenire tempestivamente in caso di peggioramenti significativi. Se però la pressione arteriosa è alta, il medico prescriverà dei farmaci antipertensivi allo scopo di limitare la velocità di progressione dell’insufficienza aortica.

In presenza di insufficienza aortica grave con sintomi o segni di disfunzione ventricolare sinistra, la soluzione migliore è l’intervento chirurgico, che può prevedere:

la riparazione della valvola aortica

la sostituzione della valvola aortica

La prognosi è in genere buona. Dopo pochi mesi è già possibile tornare a una vita normale.

 

 

Insufficienza mitralica

Insufficienza mitralica

 

L’insufficienza mitralica è una patologia caratterizzata da un difetto di chiusura della valvola mitrale che fa sì che parte del sangue pompato dal ventricolo sinistro refluisca nell’atrio sinistro invece che andare in aorta, provocando affaticamento e disturbi respiratori.

Che cos’è l’insufficienza mitralica?

In condizioni normali la valvola mitrale è formata da due sottili lembi mobili legati attraverso le corde tendinee a due muscoli (i muscoli papillari) che, contraendosi insieme al ventricolo sinistro in cui sono posizionati impediscono lo sbandieramento (prolasso) dei lembi mitralici nell’atrio sinistro: quando la valvola si apre i margini dei lembi si separano, consentendo al sangue di passare dall’atrio sinistro al ventricolo sinistro, e si riavvicinano quando la valvola si chiude, impedendo al sangue di tornare indietro. In un cuore sano la valvola mitrale separa ermeticamente l’atrio sinistro dal ventricolo sinistro. Quando, invece, questa valvola non si chiude adeguatamente ne consegue la cosiddetta insufficienza mitralica, una condizione in cui parte del sangue che dovrebbe essere spinto dal ventricolo sinistro nell’aorta ritorna invece all’interno dell’atrio. A prescindere dalla causa, questa condizione può comportare un affaticamento del cuore, con dilatazione del ventricolo sinistro. Questo può avere come conseguenze uno scompenso cardiaco e anomalie del ritmo cardiaco, come la fibrillazione atriale, ma anche l’endocardite.

Da cosa può essere causata l’insufficienza mitralica?

L’insufficienza mitralica può essere primitiva o secondaria. Nel primo caso sono presenti alterazioni anatomiche dell’apparato valvolare mitralico: alterazioni dei lembi valvolari provocati ad esempio da un’endocardite o dalla malattia reumatica, allungamento o rottura delle corde tendinee con conseguente prolasso dei lembi valvolari, calcificazioni dell’anello mitralico, rottura traumatica di un muscolo papillare. Nell’insufficienza mitralica secondaria la valvola è anatomicamente normale e il difetto di chiusura è determinato da una grave compromissione della funzione contrattile del ventricolo sinistro (insufficienza cardiaca), che spesso è secondaria a una cardiopatia ischemica.

Con quali sintomi si manifesta l’insufficienza mitralica?

I sintomi dell’insufficienza mitralica sono correlati alla gravità e alla velocità di insorgenza e progressione; possono comprendere fiato corto (soprattutto durante l’attività fisica o da sdraiati), facile faticabilità, tosse (soprattutto di notte o da sdraiati), palpitazioni, gonfiore a piedi e caviglie.

Come si può prevenire l’insufficienza mitralica?

Per ridurre al minimo il rischio di insufficienza mitralica è fondamentale trattare adeguatamente le condizioni che potrebbero innescarla, come le infezioni alla gola che possono portare alla malattia reumatica (una sindrome autoimmune che può essere scatenata da infezioni streptococciche).

Diagnosi

Dopo un’accurata visita, se vengono riscontrati sintomi suggestivi di insufficienza mitralica che può rivelare tipicamente la presenza di un soffio cardiaco, il medico può prescrivere diversi esami diagnostici:

ECG: registra l’attività elettrica del cuore. Si possono visualizzare molteplici alterazioni, in special modo segni di dilatazione atriale sinistra, segni di ipertrofia e sovraccarico (“iperlavoro”) del ventricolo sinistro, aritmie come la fibrillazione atriale.

RX torace (radiografia del torace): possono essere presenti segni di dilatazione dell’atrio e del ventricolo sinistro e di congestione polmonare.

Ecocardiogramma transtoracico: è un test basato sull’immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio trasmette un fascio di ultrasuoni al torace, utilizzando una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). È un esame fondamentale. Consente la valutazione del meccanismo e dell’entità dell’insufficienza mitralica, oltre che delle dimensioni dell’atrio e del ventricolo sinistro e della funzione contrattile di quest’ultimo, e della presenza di ipertensione polmonare. È possibile raccogliere le immagini in tempo reale anche mentre si esegue un test da sforzo (eco stress): l’esecuzione di un eco stress viene suggerita quando c’è discrepanza tra la gravità dei sintomi e l’entità dell’insufficienza mitralica a riposo.

Ecocardiogramma transesofageo: in questo caso si introduce la sonda dalla bocca e la si spinge in avanti fino a raggiungere l’esofago. Consente di visualizzare meglio le valvole e le strutture paravalvolari. Viene suggerito quando l’ecocardiogramma transtoracico non è conclusivo e, in special modo, quando si sospetta un’endocardite.

Test da sforzo: l’esame consiste nella registrazione di un elettrocardiogramma nel momento in cui il paziente sta compiendo un esercizio fisico, generalmente mentre cammina su un tapis roulant o pedala su una cyclette. Si può compiere allo scopo di confermare la mancanza di sintomi in presenza di insufficienza mitralica grave e per valutare la tolleranza allo sforzo.

Coronarografia: è l’esame che permette la visualizzazione delle coronarie utilizzando l’iniezione di mezzo di contrasto radiopaco al loro interno. L’esame viene effettuato in un’apposita sala radiologica, nella quale vengono seguite tutte le misure di sterilità necessarie. L’iniezione del contrasto nelle coronarie presuppone il cateterismo selettivo di un’arteria e l’avanzamento di un catetere fino all’origine dei vasi esplorati. La coronarografia viene suggerita quando esiste il sospetto che l’insufficienza mitralica sia secondaria a una cardiopatia ischemica.

RM cuore con mdc: produce immagini dettagliate della struttura del cuore e dei vasi sanguigni utilizzando la registrazione di un segnale emesso dalle cellule sottoposte a un intenso campo magnetico. Consente la valutazione della morfologia delle strutture del cuore, della funzione cardiaca ed eventuali alterazioni del movimento di parete (ipocinesie o acinesie). La somministrazione endovenosa di mezzo di contrasto consente inoltre di distinguere se eventuali alterazioni del movimento di parete sono causate da fibrosi (=assenza di vitalità miocardica) o da ischemia. Quest’indagine trova quindi la sua applicazione elettiva nell’insufficienza mitralica secondaria a cardiopatia ischemica, come “guida” a eventuali interventi di rivascolarizzazione miocardica.

Trattamenti

La terapia dell’insufficienza mitralica è correlata alla gravità del vizio valvolare, ai sintomi che lo accompagnano, alla presenza o meno di segni di disfunzione ventricolare sinistra, e al fatto che sia primitiva o secondaria.

Se l’insufficienza mitralica è primitiva e di entità lieve o moderata, è possibile limitarsi a periodici controlli clinici ed ecocardiografici.

In presenza di un’insufficienza mitralica cronica primitiva grave viene suggerito un intervento chirurgico di riparazione (preferibilmente) o di sostituzione della valvola mitralica.

La terapia dell’insufficienza mitralica cronica secondaria consiste invece nella terapia dell’insufficienza cardiaca che ne è la causa:

beta-bloccanti, ACE-inibitori/sartani, anti-aldosteronici, digossina;

diuretici in caso di accumulo di liquidi;

l’impianto di pacemaker (PM) biventricolari e/o defribrillatori automatici (ICD).

 

 

Ipertensione arteriosa

Ipertensione arteriosa

 

Che cos’è l’ipertensione arteriosa?

L’ipertensione arteriosa è una patologia caratterizzata dall’elevata pressione del sangue nelle arterie, che viene determinata dalla quantità di sangue pompata dal cuore e dalla resistenza delle arterie al flusso del sangue. Colpisce circa il 30% della popolazione adulta di entrambi i sessi e, nelle donne, è più frequente dopo la menopausa.

Quali sono le conseguenze?

L’ipertensione arteriosa non è una malattia, ma un fattore di rischio, ovvero una condizione che aumenta la probabilità che si verifichino altre malattie cardiovascolari (per esempio: angina pectoris, infarto miocardico, ictus cerebrale). Per questo motivo, è fondamentale riuscire ad individuarla e curarla, allo scopo di prevenire i danni che essa può provocare.

Si tratta di ipertensione arteriosa sistolica quando viene aumentata solo la pressione massima; al contrario, nell’ipertensione diastolica, vengono alterati i valori della pressione minima. Si definisce ipertensione sisto-diastolica la condizione in cui entrambi i valori di pressione (minima e massima) sono superiori alla norma.

Classicamente, e in conseguenza delle modificazioni che avvengono nell’organismo per effetto dell’invecchiamento, sono gli anziani e i grandi anziani (ultranovantenni) a soffrire più spesso di ipertensione arteriosa sistolica isolata, con valori di pressione massima anche molto alti, e pressione minima bassa. I soggetti più giovani, al contrario, soffrono più frequentemente di forme di ipertensione diastolica isolata.

Da cosa può essere causata l’ipertensione?

L’ipertensione arteriosa può essere classificata in primaria e secondaria.

Non esiste una causa precisa, identificabile e curabile dell’ipertensione arteriosa primaria (o essenziale), che rappresenta circa il 95% dei casi di ipertensione: gli elevati valori pressori sono il risultato dell’alterazione dei meccanismi complessi che regolano la pressione (sistema nervoso autonomo, sostanze circolanti che hanno effetto sulla pressione).

Nel restante 5% dei casi, invece, l’ipertensione è la conseguenza di malattie, congenite o acquisite, che interessano i reni, i surreni, i vasi, il cuore, e per questo viene definita ipertensione secondaria. In queste situazioni, l’individuazione e la rimozione delle cause (cioè, la cura della malattia di base) può essere accompagnata dalla normalizzazione dei valori pressori.

Al contrario dell’ipertensione arteriosa essenziale, che classicamente colpisce la popolazione adulta, l’ipertensione secondaria colpisce anche soggetti più giovani e spesso è caratterizzata da valori di pressione più alti e più difficilmente controllabili con la terapia farmacologica.

È importante in alcuni casi evidenziare la dipendenza dell’aumento dei valori di pressione arteriosa dall’uso (talvolta dall’abuso) di alcune sostanze tra cui, per esempio, la liquirizia, gli spray nasali, il cortisone, la pillola anticoncezionale, la cocaina e le amfetamine. In queste situazioni, se si sospende l’assunzione di queste sostanze, i valori pressori tornano alla normalità.

Con quali sintomi si manifesta l’ipertensione?

L’aumento dei valori pressori non è sempre correlato alla comparsa di sintomi, soprattutto se avviene in modo non improvviso: l’organismo si abitua in modo progressivo ai valori sempre un po’ più elevati, e non invia segnali al paziente. Per questo, in molte delle persone colpite da ipertensione non sono presenti sintomi, anche in presenza di valori pressori molto elevati.

In ogni caso, i sintomi associati all’ipertensione arteriosa non sono specifici, e per questo sono spesso sottovalutati o imputati a condizioni diverse. Tra i sintomi più comuni troviamo:

Mal di testa, specie al mattino

Stordimento e vertigini

Ronzii nelle orecchie (acufeni, tinniti)

Alterazioni della vista (visione nera, o presenza di puntini luminosi davanti agli occhi)

Perdite di sangue dal naso (epistassi)

Nei casi di ipertensione secondaria, ai sintomi aspecifici possono esserne associati altri, più specifici, provocati dalla malattia di base.

Il fatto che i sintomi siano scarsi e aspecifici rappresenta la ragione principale per cui spesso il paziente non si accorge di avere la pressione alta. Per questo è fondamentale controllare periodicamente la pressione: fare diagnosi precoce di ipertensione arteriosa significa prevenire i danni ad essa legata e, quindi, malattie cardiovascolari anche invalidanti.

Quali sono i fattori che predispongono le persone a questa condizione?

Familiarità: la presenza, in famiglia, di soggetti ipertesi comporta un aumento di probabilità che un paziente sviluppi ipertensione arteriosa.

Età: la pressione arteriosa aumenta con l’avanzare dell’età, come conseguenza dei cambiamenti che si verificano a carico dei vasi arteriosi (che, invecchiando, diventano più rigidi). Ad un certo punto, mentre la pressione sistolica (massima) continua ad aumentare per effetto dell’età, la diastolica (minima) non aumenta più o, addirittura, tende a diminuire; questo spiega le forme di ipertensione sistolica isolata tipica dei grandi anziani.

Sovrappeso: sovrappeso e obesità, attraverso meccanismi diversi e complessi, sono correlati ad un incremento dei valori pressori.

Diabete: questa condizione, grave e assai diffusa tra la popolazione adulta, si associa spessissimo ad un aumento della pressione arteriosa, elevando in modo significativo il rischio di malattie cardiovascolari.

Fumo: il fumo di sigaretta altera in modo acuto i valori di pressione arteriosa (dopo aver fumato, la pressione resta più alta per circa mezz’ora); a questo, si aggiungono i danni cronici che il fumo provoca ai vasi arteriosi (perdita di elasticità, danno alle pareti vascolari, predisposizione alla formazione di placche aterosclerotiche).

Disequilibrio di sodio e potassio: il consumo di cibi troppo salati e, in generale, un’alimentazione troppo ricca di sodio o troppo povera di potassio, possono contribuire a determinare l’ipertensione arteriosa.

Alcool: un consumo eccessivo di alcoolici (più di un bicchiere al giorno per le donne, due per gli uomini) può contribuire all’innalzamento dei valori pressori, oltre che provocare danni al cuore (che, in conseguenza del troppo alcool, tende a dilatarsi e a perdere la sua funzione di pompa, con gravi conseguenze su tutto l’organismo).

Stress: lo stress (fisico ed emotivo) contribuisce al mantenimento di valori di pressione più alti. Questo spiega, per esempio, perché in occasione delle visite mediche, la pressione è spesso più alta rispetto a quella che il paziente si misura al domicilio; perché la pressione possa essere più alta nei giorni lavorativi rispetto ai periodi di vacanza, ed anche perché i valori di pressione aumentino mentre si fa esercizio fisico.

Sedentarietà: non esiste certezza riguardo alla correlazione tra sedentarietà ed aumento della pressione arteriosa; è certo, tuttavia, che l’attività fisica moderata e costante (mantenendo attivo l’organismo e favorendo il controllo del peso) contribuisca a ridurre i valori pressori e a potenziare le prestazioni fisiche (l’allenamento aumenta progressivamente la capacità di tollerare gli sforzi).

Diagnosi

La misurazione della pressione arteriosa viene indicata attraverso due valori, pressione sistolica (massima) e pressione diastolica (minima), che dipendono dal fatto che il muscolo cardiaco si contrae (sistole) e si rilassa (diastole) tra un battito e l’altro.

I valori normali per la popolazione adulta sono compresi entro i 140/85 mmHg. Pertanto, si tratta di ipertensione quando uno o entrambi i valori di pressione sono costantemente superiori alla norma.

Poiché l’aumento dei valori pressori spesso non è correlato a sintomi e poiché, quando presenti, questi non sono specifici, l’unico modo per fare diagnosi di ipertensione arteriosa è quello di sottoporsi periodicamente a misurazioni della pressione. In caso contrario, è possibile effettuare una diagnosi quando i valori di pressione, alti da parecchio tempo, hanno già compiuto un danno o, addirittura, in occasione di eventi acuti (infarto miocardico, ictus cerebrale).

Una volta fatta una diagnosi di ipertensione arteriosa, è importante sottoporsi ad alcuni esami allo scopo di comprendere se l’ipertensione ha già danneggiato i vasi, il cuore, i reni, aiutando il medico a definire il profilo di rischio cardiovascolare dei pazienti e a scegliere la terapia antiipertensiva più adatta.

Trattamenti

Come si può curare l’ipertensione?

Il trattamento dell’ipertensione arteriosa, anche quando viene previsto il ricorso a farmaci, non può assolutamente prescindere da cambiamenti nello stile di vita.

Il trattamento della pressione arteriosa deve avere come obiettivo quello di riportare i valori pressori alla normalità (cioè, entro i 140/85 mmHg, a meno di patologie concomitanti, che impongono valori di pressione più bassi): non è sufficiente, pertanto, abbassare un po’ la pressione, ma è importante normalizzarla (diversamente, il rischio di incorrere in malattie cardiovascolari resterà aumentato).

Un’alimentazione povera di sale, un’attività fisica moderata e costante (30 minuti/die di camminata veloce o di cyclette), il controllo del peso corporeo (la perdita di peso, in caso di sovrappeso/obesità), l’astensione dal fumo di sigaretta, un consumo controllato di alcoolici, sono tutti atteggiamenti consigliabili in caso di riscontro di un incremento di valori pressori. Nei casi di lievi aumenti della pressione arteriosa, ed in mancanza di altri fattori di rischio correlati (fumo, diabete, ipercolesterolemia, obesità), queste modificazioni dello stile di vita possono essere la sola terapia prescritta dal medico, e possono essere efficaci nel riportare la pressione arteriosa a valori normali.

Una volta effettuata la diagnosi di ipertensione arteriosa e corrette le abitudini di vita, è possibile che sia necessario cominciare una terapia farmacologica, allo scopo di normalizzare la pressione arteriosa.

È importante sapere che la terapia antiipertensiva è una terapia cronica, che deve essere assunta per molti anni (di rado capita che un paziente iperteso ad un certo punto possa smettere di assumere i farmaci per la pressione).

Sono disponibili molti farmaci che agiscono sul controllo della pressione arteriosa con meccanismi diversi; sono tutti efficaci e sicuri, per cui la scelta del tipo di antiipertensivo da utilizzare viene fatta dal medico in base alla storia del paziente e alla presenza di altre patologie associate.

Per alcuni pazienti è sufficiente utilizzare un solo antiipertensivo per normalizzare la pressione arteriosa, per altri risulta opportuno ricorrere all’associazione di più farmaci, che agendo con meccanismi diversi concorrono al controllo della pressione. Il fatto che sia necessario assumere più antiipertensivi non significa avere un’ipertensione più aggressiva, ma più semplicemente si deve alla diversa reazione che ogni paziente può avere verso le singole terapie. Per questo, potrebbe volerci un po’ di tempo prima che si arrivi a trovare il o i farmaci efficaci e meglio tollerati. E può anche succedere che dopo anni di terapia, un paziente richieda l’aggiunta o il cambio di un farmaco: non è colpa dell’antiipertensivo che perde efficacia, ma è l’effetto della pressione arteriosa, che con gli anni cambia.

In alcuni pazienti anche l’utilizzo anche di 4-5 farmaci antiipertensivi a dosaggio pieno può non essere sufficiente a controllare la pressione arteriosa: in questi casi si tratta di ipertensione arteriosa resistente. Di recente si è proposto l’uso di nuove terapie non farmacologiche per il trattamento di queste forme di ipertensione arteriosa (denervazione delle arterie renali).

Farmaci antiipertensivi:

ACE inibitori, antagonisti del recettore per l’angiotensina II (Angiotensin II receptor Blocker – ARBs) o sartani, inibitori diretti della renina: abbassano la pressione interferendo con la produzione di alcune sostanze circolanti che costituiscono il cosiddetto sistema renina-angiotensina-aldosterone. Ogni classe di farmaci risulta attiva in un punto diverso di questo sistema.

Calcio antagonisti: controllano la pressione determinando vasodilatazione.

Diuretici: aiutano l’organismo a smaltire acqua e sali minerali (sodio)

Alfa e beta bloccanti: agiscono a livello dei meccanismi nervosi di controllo periferico della pressione arteriosa

Simpaticolitici ad azione centrale: agiscono a livello dei meccanismi nervosi di controllo centrale (sistema nervoso centrale) della pressione arteriosa

Ipertensione polmonare

Ipertensione polmonare

 

Con il termine “ipertensione polmonare” viene indicato un incremento della pressione del sangue all’interno dei vasi arteriosi del polmone causato dalla distruzione, dall’ispessimento parietale, dal restringimento o dall’ostruzione dei vasi stessi.

Che cos’è l’ipertensione polmonare?

Con il termine “ipertensione polmonare” viene indicato un incremento della pressione del sangue all’interno dei vasi arteriosi del polmone causato dalla distruzione, dall’ispessimento parietale, dal restringimento o dall’ostruzione dei vasi stessi.

La pressione polmonare media è normalmente di circa 14 mmHg a riposo: si può cominciare a parlare di ipertensione polmonare quando la pressione polmonare media supera i 25 mmHg. Questa condizione sottopone il ventricolo destro (deputato a pompare sangue verso i polmoni) a un sovraccarico di pressione e volume, che può portarlo all’insufficienza contrattile e allo scompenso.

Se l’ipertensione polmonare non viene opportunamente trattata, può degenerare provocando un ulteriore restringimento dei vasi sanguigni e aggravare i sintomi tipici della patologia.

Da cosa può essere causata l’ipertensione polmonare?

L’ipertensione polmonare può essere di due tipi:

  1. Primitiva o idiopatica: rappresenta una condizione rara che colpisce soprattutto il sesso femminile. Compare più frequentemente tra i 30 e i 50 anni. Sebbene ancora non si conosca la causa dell’ipertensione polmonare primitiva, la patologia può risultare correlata a particolari mutazioni genetiche.
  2. Acquisita o secondaria: è molto più diffusa della forma primitiva. La patologia nella forma secondaria è stata osservata in associazione a:

Malattie polmonari come l’enfisema, la fibrosi polmonare, la broncopneumopatia cronica ostruttiva e la patologia respiratoria associata ai disordini del sonno (apnee notturne).

Embolia polmonare e ipertensione polmonare trombo embolica cronica.

Malattie autoimmuni del tessuto connettivo, come la sclerodermia o il lupus eritematoso sistemico.

Difetti cardiaci congeniti o malattie del cuore sinistro (valvulopatie, grave insufficienza cardiaca).

Anemia emolitica cronica (anemia falciforme).

Malattie croniche del fegato con ipertensione portale.

Infezioni da HIV.

Assunzione di alcuni farmaci (anoressizzanti, inibitori del reuptake della serotonina) o di sostanze stimolanti (cocaina, anfetamine).

Con quali sintomi si manifesta l’ipertensione polmonare?

La sintomatologia dell’ipertensione polmonare può comprendere:

Difficoltà di respirazione, in particolare durante sforzi fisici.

Stanchezza o affaticabilità.

Svenimenti.

Nelle fasi avanzate della patologia le difficoltà di respirazione possono manifestarsi anche in una situazione di riposo ed è possibile che compaiano dolori al petto tipici dell’angina pectoris (segno di sofferenza cardiaca) ed edema (ristagno di liquidi) agli arti inferiori.

Come si può prevenire l’ipertensione polmonare?

In relazione all’ipertensione polmonare secondaria la prevenzione può essere mirata a evitare/trattare tutte le condizioni mediche e i fattori di rischio che possono comportare lo sviluppo della malattia.

Per quanto riguarda l’ipertensione polmonare primitiva, poiché la causa all’origine di questa forma della patologia è perlopiù sconosciuta, non è possibile prevenirla.

Diagnosi

L’ecocardiografia transtoracica rappresenta la tecnica non invasiva migliore per approcciare la diagnosi di ipertensione polmonare. Un ecocardiogramma consente di visualizzare molto accuratamente il cuore e di registrare le alterazioni morfologiche e strutturali delle camere cardiache destre che si sviluppano come conseguenza dell’incremento dei valori di pressione polmonare. La metodica Doppler consente inoltre di effettuare una stima indiretta della pressione sistolica (cioè la pressione massima) nell’arteria polmonare.

Per effettuare una diagnosi definitiva è però necessario sottoporsi al cateterismo cardiaco: attraverso questo esame si può infatti misurare in modo diretto alcuni parametri, la cui alterazione è correlata ad una prognosi sfavorevole della malattia: la pressione nell’atrio destro del cuore, la pressione polmonare media, la portata cardiaca. Tramite il cateterismo cardiaco si può inoltre eseguire il test di vaso-reattività polmonare: attraverso la somministrazione di farmaci che inducono la dilatazione dei vasi sanguigni polmonari si possono identificare i pazienti che presentano una residua capacità di vasodilatazione polmonare e che potrebbero trarre giovamento dalle terapie farmacologiche.

Possono inoltre risultare utili:

Spirometria: il paziente respira tramite un boccaglio e l’apparecchio collegato al boccaglio misura vari aspetti della respirazione, per riscontrare eventuali anomalie che rimandano a patologie polmonari.

Angio-tomografia computerizzata del torace e angiopneumografia: sono esami radiologici che consentono la visualizzazione del decorso delle arterie polmonari e la loro eventuale occlusione.

Scintigrafia polmonare perfusoria: con questo esame si può ottenere una “fotografia” della circolazione sanguigna nei polmoni. In presenza di ostruzioni vengono rilevati difetti di perfusione.

Emogasanalisi (EGA): è un prelievo di sangue arterioso allo scopo di misurare la quantità di ossigeno e di anidride carbonica in esso presenti.

Test del cammino e test da sforzo cardiopolmonare: per valutare la tolleranza cardiaca allo sforzo e la presenza di eventuale insufficienza respiratoria.

Trattamenti

Il trattamento varia a seconda che si soffra della forma primitiva o secondaria della malattia.

Nel caso di ipertensione polmonare secondaria, la terapia è basata principalmente sui trattamenti mirati a curare la condizione che ha scatenato la patologia.

Il trattamento dell’ipertensione polmonare primaria è basato sulla somministrazione di farmaci che possano vasodilatare il circolo polmonare come calcio antagonisti, prostacicline, farmaci antiendotelina e inibitori della fosfodiesterasi tipo 5 (sildenafil e simili).

In molti casi viene suggerito l’impiego di anticoagulanti orali, che possono essere correlati a diuretici e ad altre terapie dell’insufficienza cardiaca, in caso di scompenso di circolo.

 

 

Ipotensione

Ipotensione

 

L’ipotensione è una condizione in cui la pressione del sangue è molto più bassa rispetto ai valori considerati normali. Solitamente può essere trattata con successo per evitare che quantità sufficienti di ossigeno e nutrienti non raggiungano cuore, cervello e altri organi e tessuti dell’organismo.

Che cos’è l’ipotensione?

La pressione del sangue varia da persona a persona. Generalmente si parla di ipotensione quando c’è una condizione in cui la pressione massima (o sistolica) è uguale o inferiore a 90 mmHg e quella minima (o diastolica) è uguale o inferiore a 60 mmHg. L’ipotensione può essere causata da molteplici fattori di diversa rilevanza: si varia pertanto da una banale disidratazione a disturbi più seri. Cali pressori improvvisi possono determinare un afflusso ridotto di sangue al cervello con il rischio di svenimenti e cadute a terra, le cui conseguenze sono particolarmente disastrose nei soggetti anziani (pericolo di fratture gravi). Solitamente si tratta di un problema risolvibile, a patto che la sua causa sia correttamente individuata.

Da cosa può essere causata l’ipotensione?

Alla base della diminuzione della pressione sanguigna possono esserci un’emorragia improvvisa, una grave infezione, uno scompenso cardiaco, uno shock anafilattico, danni ai nervi che regolano le variazioni pressorie della circolazione come nel caso di diabete, aritmie e disidratazione. Si può avere una comparsa di ipotensione in concomitanza con cambiamenti repentini della postura, come avviene nel caso di ipotensione ortostatica, soprattutto al passaggio rapido dalla posizione sdraiata alla posizione eretta. In questo caso i disturbi scompaiono entro pochi minuti o addirittura in pochi secondi se il soggetto ripristina rapidamente la posizione di partenza. Una situazione simile si verifica nel caso dell’ipotensione ortostatica postprandiale, in cui il problema compare dopo i pasti ed interessa soprattutto gli anziani. L’aumento del sangue confinato alla regione gastro-intestinale, per garantire il miglior svolgimento del lavoro digestivo, sottrae sangue agli altri organi e contribuisce all’abbassamento della pressione arteriosa sistemica. Nei bambini e nei giovani adulti si verifica più frequentemente l’ipotensione neuromediata, un problema che può fare la sua comparsa quando si sta in piedi per un periodo di tempo troppo lungo. Infine, la pressione può essere ridotta notevolmente dall’alcol e da alcuni farmaci, soprattutto i medicinali contro l’ansia e la depressione, i diuretici, gli antipertensivi in generale e alcuni antidolorifici.

Con quali sintomi si manifesta l’ipotensione?

I principali sintomi dell’ipotensione sono: vista appannata, stato confusionale, vertigini, svenimento, stordimento, nausea o vomito, sonnolenza e debolezza.

Come si può prevenire l’ipotensione?

Le misure preventive sono indicate soprattutto nelle forme di ipotensione ortostatica e di ipotensione neuromediata. Nel primo caso è bene evitare una eccessiva disidratazione, attraverso l’assunzione di una congrua dose di liquidi nella giornata; è fortemente consigliato inoltre di evitare di alzarsi velocemente dalla posizione seduta o sdraiata, di non bere alcolici ed eventualmente di utilizzare calze contenitive. In caso di ipotensione neuromediata è necessario evitare di stare in piedi troppo a lungo.

Diagnosi

Per una diagnosi dell’ipotensione è necessaria una visita medica in cui vengono valutati pressione sanguigna in clino e ortostatismo, polso, respirazione e temperatura corporea, e in cui vengono raccolte informazioni sui farmaci assunti, sull’alimentazione, su malattie o traumi recenti.

Potrebbero essere prescritte delle analisi di primo livello tra cui:

Esami del sangue completi + esame urine

Elettrocardiogramma

Radiografia del torace

Trattamenti

Se l’ipotensione non è correlata ad alcun sintomo, generalmente non è necessario un trattamento. Negli altri casi la terapia più adatta dipende dalla causa dell’abbassamento della pressione sanguigna.

In caso di ipotensione ortostatica potrebbe essere necessario limitare le dosi di alcuni dei farmaci assunti o sostituirli con altri medicinali, bere di più per evitare la disidratazione e indossare calze contenitive.

Per chi soffre di ipotensione neuromediata sarebbe opportuno evitare di stare in piedi troppo a lungo, mantenersi idratato e aumentare il consumo di sale; solo nei casi più gravi potrebbe essere necessario assumere farmaci specifici.

Per le forme di ipotensione più gravi è necessario effettuare una valutazione medica approfondita. Spesso vengono associate al ricovero ospedaliero e all’esecuzione di indagini specialistiche, oltre che alla somministrazione di terapie adatte alla causa riconosciuta dell’ipotensione.

Sindrome del QT Lungo (LQTS)

Sindrome del QT Lungo (LQTS)

 

È una cardiopatia provocata da un difetto del battito cardiaco, difetto del processo di ripolarizzazione ventricolare (fase successiva alla contrazione ventricolare) che in questi pazienti avviene in un tempo più lungo rispetto alla norma. Questa fase del battito è indicata come intervallo QT e risulta allungata in modo patologico nei pazienti affetti da LQTS. Questa anomalia elettrica del battito cardiaco si presenta con una grande disomogeneità elettrica della ripolarizzazione ventricolare, il miocardio ventricolare diventa altamente vulnerabile; l’extrasistole che insorge in tale periodo può innescare un’aritmia rapidissima, sincopale e spesso fatale.

Le aritmie ventricolari da LQTS, come per esempio torsioni di punta o tachicardie ventricolari, si presentano con una perdita di coscienza (sincopi). Le anomalie della ripolarizzazione ventricolare sono originate da alterazioni di alcune proteine responsabili del trasporto degli ioni potassio e sodio mediante la membrana delle cellule cardiache, funzione fondamentale per il mantenimento della normale attività elettrica del cuore. I difetti di questi canali possono avere un carattere genetico (nelle forme ereditarie della sindrome), ma possono anche essere provocati dall’azione di alcuni farmaci come antiaritmici, antimicotici ecc.

Fra le LQTS genetiche si possono distinguere forme simili tra loro ma secondarie ad alterazioni in geni diversi. Sono stati identificati diversi geni, le cui mutazioni causano LQTS: ad esempio gene KCNQ1 o KvLQT1 cromosoma 11 che genera LQT1, gene KCNH2 o HERG cromosoma 7 che genera LQT2 ecc. Solitamente la sindrome del QT lungo viene trasmessa con modalità autosomica dominante.

Diagnostica

Elettrocardiogramma a 12 derivazioni

Trattamenti

Terapia con farmaci betabloccanti o con farmaci a base di potassio

Impianto del defibrillatore

Miocardite

Miocardite

 

La miocardite è un’infiammazione del muscolo cardiaco solitamente correlata a infezioni virali, batteriche o fungine (o micotiche). In alcuni casi si può avere una guarigione completa dalla malattia, senza postumi per il cuore. In altre situazioni, il superamento della fase di massima intensità può essere seguito da un danno permanente con compromissione della funzione cardiaca e conseguente scompenso cardiocircolatorio cronico.

Che cos’è la miocardite?

Quando il cuore viene colpito da un’infezione l’agente infettivo danneggia o distrugge le cellule muscolari delle sue pareti; nel stesso tempo le cellule del sistema immunitario che hanno la funzione di combatterla possono, a loro volta, provocare danni al muscolo cardiaco, contribuendo in modo rilevante al quadro globale. In questa rara circostanza le pareti del cuore diventano più spesse e deboli, generando i sintomi tipici di uno scompenso cardiaco. La prognosi dipende dalla causa alla base dell’infezione e dallo stato di salute generale di chi ne è colpito: in alcuni casi si può guarire completamente, mentre in altri lo scompenso può diventare cronico. Altre possibili complicazioni comprendono lo sviluppo di cardiomiopatie e l’estensione dell’infiammazione al pericardio con conseguente pericardite.

Da cosa può essere causata la miocardite?

Gli agenti infettivi che più spesso provocano la miocardite sono i virus (Coxsackie, Citomegalovirus, virus dell’epatite C, Herpes, HIV o Parvovirus), alcuni batteri (Clamidia, Micoplasma, Streptococco o Treponema) e alcuni funghi (Aspergillus, Candida, Coccidioidi, Criptococco o Histoplasma). Ci sono altre possibili cause, come reazioni allergiche a farmaci o sostanze tossiche (alcol, cocaina, metalli pesanti e catecolammine), oppure malattie autoimmuni o genericamente infiammatorie (artrite reumatoide, LES o sarcoidosi).

Con quali sintomi si manifesta la miocardite?

In alcuni casi la miocardite risulta essere asintomatica; in altri si manifestano sintomi simili a quelli dell’influenza. Tra i sintomi di interesse cardiologico che vengono di solito segnalati sono inclusi: palpitazioni (motivate da aritmie, che possono essere anche maligne), dolori al petto, affaticamento e mancanza di respiro; i pazienti possono segnalare anche svenimenti, riduzione della quantità di urine e comparsa di gonfiori agli arti inferiori, con caratteristiche di gravità via via maggiori secondo il livello di compromissione della funzione del cuore. È possibile che questi sintomi coesistano con altri più generali di tipo infettivo/infiammatorio come febbre, mal di testa, dolori muscolari, dolori articolari.

Come si può prevenire la miocardite?

Non esistono vere misure per prevenire una miocardite che può anche risultare come prima e unica manifestazione di una infezione virale o di una malattia autoimmune. È sempre opportuno effettuare il trattamento tempestivo di un’infezione batterica o fungina, per prevenire il coinvolgimento del cuore e quindi la comparsa di miocardite.

Diagnosi

Per effettuare una diagnosi di miocardite potrebbero essere prescritti:

esami del sangue, inclusi le emocolture e altri esami infettivologici

RX del torace

ECG

ecocardiogramma

cateterismo cardiaco con biopsia endomiocardica

​Trattamenti

Il trattamento più adatto in caso di miocardite dipende dalla causa scatenante e può includere:

l’assunzione di antibiotici

l’assunzione di antinfiammatori

Nel caso in cui la compromissione cardiaca fosse molto rilevante è necessario ricoverare il paziente in ambiente ospedaliero e somministrare la terapia dello scompenso cardiaco. Nelle forme più gravi sono obbligatori la degenza in terapia intensiva e i trattamenti farmacologici e meccanici del caso (inclusi il posizionamento di un pace-maker temporaneo o definitivo e l’impiego di un defibrillatore).

 

Scompenso cardiaco

Scompenso cardiaco

 

Lo scompenso cardiaco viene provocato dall’incapacità del cuore di svolgere la normale funzione contrattile di pompa e di soddisfare il corretto apporto di sangue a tutti gli organi. Non è sempre facile evidenziarlo, ed infatti nello stadio precoce la malattia può essere asintomatica.

Che cos’è lo scompenso cardiaco?

Lo scompenso cardiaco è costituito da un insieme di sintomi e manifestazioni fisiche provocati dall’incapacità del cuore di svolgere la normale funzione contrattile di pompa e di soddisfare il corretto apporto di sangue a tutti gli organi. Lo scompenso cardiaco può verificarsi a qualsiasi età e può essere determinato da diverse cause. Lo sviluppo dell’insufficienza cardiaca può avvenire in genere a causa di una lesione muscolare cardiaca, ad esempio come conseguenza di un infarto del miocardio, di un’eccessiva sollecitazione cardiaca dovuta a un’ipertensione arteriosa non trattata o a causa di una disfunzione valvolare cronica. L’elettrocardiogramma di molti pazienti colpiti da scompenso cardiaco mostra un’alterazione denominata “blocco di branca sinistra” (BBS). È stato dimostrato che le conseguenze di questa alterazione della propagazione del battito cardiaco sono delle modificazioni dell’attività meccanica contrattile cardiaca, che provocano una dissincronia di contrazione e quindi un peggioramento della capacità contrattile del cuore.

Con quali sintomi si manifesta questa patologia

Dal punto di vista clinico non si può sempre evidenziare lo scompenso cardiaco: nello stadio precoce i pazienti non manifestano quasi nessun sintomo, oppure avvertono sintomi lievi, come per esempio l’affanno solo per sforzi molto elevati. Purtroppo l’andamento naturale della patologia è progressivo e i sintomi diventano gradualmente sempre più evidenti portando il paziente a effettuare accertamenti cardiologici per malessere. Nei soggetti affetti da scompenso cardiaco, l’incapacità del cuore di pompare il sangue efficacemente e di fornire ossigeno a organi importanti come reni e cervello, determina la comparsa di una serie di sintomi, fra i quali per esempio: dispnea (mancanza di fiato) da sforzo e a volte anche dispnea a riposo, edema degli arti inferiori, astenia, difficoltà respiratorie in posizione supina, tosse, addome gonfio o dolente, perdita di appetito, confusione, deterioramento della memoria.

La classificazione di gravità

Il grado di scompenso cardiaco viene classificato in base al livello di limitazione dell’attività fisica: la New York Heart Association individua quattro classi di scompenso cardiaco (Classe I, II, III o IV). I medici e le pubblicazioni mediche solitamente utilizzano questa classificazione per descrivere la gravità dello scompenso cardiaco e l’effetto del trattamento. La definizione delle classi si basa sui sintomi che si manifestano durante l’esercizio dell’attività:

Classe I. Paziente asintomatico (non presenta sintomi). L’attività fisica abituale non determina dispnea né affaticamento.

Classe II. Scompenso cardiaco lieve. L’attività fisica moderata (come salire due rampe di scale o salire alcuni gradini portando un peso) comporta dispnea o affaticamento

Classe III. Scompenso cardiaco da moderato a grave. L’attività fisica minima (come camminare o salire mezza rampa di scale) provoca dispnea o affaticamento.

Classe IV. Scompenso cardiaco grave. Astenia, dispnea o affaticamento sono presenti anche in una situazione di riposo (seduti o sdraiati a letto).

Diagnosi

La diagnosi di scompenso cardiaco si basa sulla valutazione clinica che tiene conto della storia clinica, dell’esame fisico e di appropriate indagini strumentali.

Tra le più importanti ci sono:

elettrocardiogramma,

radiografia del torace,

prelievo per dati ematochimici,

holter ECG 24 ore,

test ergometrico.

In alcuni casi risulta necessario effettuare cateterismo cardiaco e coronarografia.

Trattamenti

Il trattamento dello scompenso cardiaco è multidisciplinare e caratterizzato da vari livelli d’approccio. L’equipe medica ha come obiettivo finale quello di ridurre i sintomi per migliorare la qualità della vita, rallentare la progressione della patologia, ridurre l’ospedalizzazione e aumentare la sopravvivenza. Come per molte altre condizioni patologiche, le chiavi del successo nella gestione a breve e lungo termine di questa patologia sono rappresentate da una diagnosi precoce e dalla stretta collaborazione tra il proprio medico di fiducia e il cardiologo curante.

Nel trattamento dello scompenso cardiaco è previsto l’uso di diversi presidi:

Terapia farmacologica: spesso costituita dalla combinazione di più farmaci. È importante, inoltre, che si attuino delle modifiche allo stile di vita e alle abitudini alimentari, come per esempio la riduzione dell’apporto di sale, il controllo dei bilanci idrici, la pratica di attività fisica moderata periodica ecc…

Nel caso in cui la sola terapia farmacologica non risultasse sufficiente oppure non ben tollerata dal paziente, è necessario aggiungervi anche la terapia elettrica, attraverso l’impianto di dispositivi per la resincronizzazione cardiaca. Questi dispositivi lavorano in stretta sinergia con i farmaci antiscompenso, battito dopo battito, riuscendo così a frenare la progressione dello scompenso e in molti casi a ripristinare una contrattilità cardiaca normale e una buona qualità di vita. La terapia di risincronizzazione cardiaca, associata a un programma terapeutico adeguato, è risultata capace di migliorare la sopravvivenza e la qualità di vita di molti pazienti limitando i sintomi dell’insufficienza cardiaca, incrementando la capacità di esercizio e ponendo i soggetti in condizione di poter riprendere molte delle loro attività quotidiane.

I pacemaker biventricolari CRT-P o defibrillatori biventricolari CRT-D risultano essere un importante presidio di trattamento per lo scompenso ormai largamente clinicamente testato: sono in uso da molti anni e approvati dalle linee guida delle più grandi società mondiali di cardiologia. Sarà il cardiologo a stabilire quale dispositivo CRT sia più adatto al quadro clinico del paziente, in base alle condizioni del paziente e ai dati ecografici.

Come si può prevenire?

Per i soggetti a rischio cardiovascolare in cui si manifestino una disfunzione ventricolare sinistra asintomatica, noto precursore dello scompenso cardiaco sia di tipo sistolico che diastolico, e un’assenza di elementi considerati con chiarezza predittori di scompenso, è consigliabile prestare un’attenzione maggiore in termini di diagnostica preventiva e di terapia farmacologica.

Sindrome da prolasso valvolare mitralico

Sindrome da prolasso valvolare mitralico

 

La sindrome da prolasso valvolare mitralico è una patologia caratterizzata da un’alterazione di una delle valvole cardiache, la valvola mitrale, indicata come “prolasso della valvola mitrale”. Se si ha un corretto funzionamento del cuore la valvola mitrale si chiude completamente durante la contrazione del ventricolo sinistro e impedisce al sangue di refluire nell’atrio sinistro; nei soggetti affetti da prolasso mitralico uno (più spesso il posteriore) o entrambi i lembi della valvola sbandiera in atrio sinistro quando il ventricolo sinistro si contrae, impedendo la perfetta chiusura della valvola.

Che cos’è la sindrome da prolasso valvolare mitralico?

In condizioni normali la valvola mitrale è costituita da due sottili lembi mobili legati attraverso corde tendinee a due muscoli (i muscoli papillari) che, nel contrarsi insieme al ventricolo sinistro dove sono collocati impediscono lo sbandieramento dei lembi mitralici nell’atrio sinistro: i margini dei lembi vengono separati quando la valvola si apre, consentendo il passaggio del sangue dall’atrio sinistro al ventricolo sinistro, e si riavvicinano quando la valvola si chiude, impedendo al sangue di tornare indietro. Il prolasso valvolare mitralico è lo sbandieramento in atrio sinistro di uno o entrambi i lembi della valvola mitrale quando il ventricolo sinistro si contrae. Questo difetto valvolare interessa il 6% della popolazione circa, e colpisce in particolar modo il sesso femminile.

Da cosa può essere causata la sindrome da prolasso valvolare mitralico?

Si parla di forme “primarie” di prolasso valvolare mitralico – che possono essere familiari e non familiari – quando alla base ci sono condizioni come la sindrome di Marfan o altre patologie del connettivo; queste forme sono caratterizzate da un’esuberanza di tessuto nei lembi valvolari. Si parla di forme “secondarie” quando il prolasso è provocato da altre problematiche che coinvolgono il cuore, tra cui: cardiopatia ischemica, endocardite, difetto interatriale, cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva, forme tumorali.

Con quali sintomi si manifesta la sindrome da prolasso valvolare mitralico?

Nella maggior parte dei casi questa valvulopatia non è associata a sintomi particolari e consente di vivere una vita normale. Alcuni sintomi comunque possono essere:

dolore retrosternale prolungato, non associato all’esercizio fisico

palpitazioni

sincopi (ossia svenimenti)

Come si può prevenire la sindrome da prolasso valvolare mitralico?

Purtroppo non è possibile prevenire questo tipo di valvulopatia. Tuttavia, si può ridurre la probabilità di sviluppare le complicazioni a essa correlate seguendo le indicazioni del medico e assumendo i medicinali consigliati, quando vengono prescritti.

Diagnosi

Spesso questa valvulopatia risulta asintomatica e si ha una diagnosi spesso occasionale. La diagnosi è suggerita dal riscontro all’auscultazione cardiaca dei reperti tipici di questa valvulopatia (click seguito da un soffio). Sarà il medico poi a decidere se richiedere degli esami strumentali, come:

ECG: registra l’attività elettrica del cuore. Di solito è normale, ma a volte si possono riscontrare alterazioni della ripolarizzazione o aritmie.

Ecocardiogramma: è un test basato sull’immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio trasmette un fascio di ultrasuoni al torace, utilizzando una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). È l’esame più importante: permette la visualizzazione accurata del movimento dei lembi mitralici, permettendo un’appropriata valutazione dell’entità del prolasso e del suo meccanismo.

ECG dinamico secondo Holter: l’Holter è il monitoraggio prolungato nelle 24 ore dell’ECG. È indicato nei soggetti che segnalano palpitazioni per la valutazione di eventuali aritmie.

Test da sforzo: l’esame consiste nella registrazione di un elettrocardiogramma nel momento in cui il paziente compie un esercizio fisico, generalmente mentre cammina su un tapis roulant o pedala su una cyclette. Il test viene effettuato seguendo protocolli predefiniti, allo scopo di valutare al meglio la riserva funzionale del circolo coronarico. Viene interrotto alla comparsa di sintomi, alterazioni ECG o pressione elevata o una volta raggiunta l’attività massimale per quel paziente in assenza di segni e sintomi indicativi di ischemia. Viene suggerito per i soggetti che riferiscono sincopi o dolore toracico.

Trattamenti

Nella maggior parte dei casi il prolasso della valvola mitrale è asintomatico e il trattamento non risulta necessario. Sono opportuni periodici controlli clinici ed ecocardiografici. Se ci sono aritmie, può essere prescritto l’impiego di antiaritmici; i farmaci di prima scelta sono i beta-bloccanti.

 

Sindrome di Brugada

Sindrome di Brugada

 

Che cos’è la sindrome di Brugada e chi colpisce?

Entità clinica descritta nel 1992 dai fratelli Brugada, correlata a un rischio aumentato di morte cardiaca improvvisa in assenza di una cardiopatia strutturale. L’incidenza di eventi letali è più alto nei maschi nella terza e quarta decade di vita. Si tratta di una patologia genetica che coinvolge alcuni canali ionici, strutture poste sulla superficie delle cellule del cuore, provocandone un malfunzionamento e generando in tal modo degli squilibri nell’attività elettrica aumentando il rischio di insorgenza di aritmie potenzialmente fatali.

È caratterizzata dal punto di vista elettrocardiografico da un sopraslivellamento del tratto ST nelle derivazioni precordiali di destra (V1-V2-V3, al quarto spazio intercostale a destra e sinistra dello sterno), le derivazioni che registrano l’attività elettrica del tratto di efflusso del ventricolo destro.

La genetica nella sindrome di Brugada

L’alterazione delle correnti ioniche nella sindrome di Brugada riconosce un’origine genetica con trasmissione autosomica dominante: la prima mutazione che è risultata essere associata alla sindrome è un’alterazione nel gene che codifica per la proteina che costituisce il canale del sodio. Al momento una specifica mutazione genetica viene identificata nel 18-30% dei pazienti colpiti, ma con il progredire della ricerca genetica nuove mutazioni a carico di questo e di altri geni vengono progressivamente descritte.

Diagnostica

L’aspetto dell’elettrocardiogramma è di notevole importanza. La manifestazione elettrocardiografica nei soggetti colpiti non risulta costante, caratteristica che rende problematica la diagnosi di questa condizione. In presenza di tracciato anche solo sospetto, è opportuno effettuare una valutazione con ecg dinamico sec. holter al fine di valutare l’andamento dell’elettrocardiogramma nelle 24 ore. Il sopraslivellamento del tratto ST tipico è detto “a tenda”, poiché tende a discendere in linea retta fino a oltrepassare la linea isoelettrica e continuarsi con una onda T negativa. Il pattern a tenda è denominato di tipo 1; esistono i pattern tipo 2 con un sopra ST a concavità superiore di entità superiore a 1 mm, e di tipo 3 con sopraslivellamento inferiore a 1 mm (cosiddetto aspetto “a sella”). In un singolo paziente si possono riscontrare in diversi momenti diversi aspetti ECGgrafici, di cui il tipo I è ritenuto diagnostico.

L’aspetto ECG configura il fenomeno di Brugada; per poter definire la sindrome tuttavia è necessario avere anche il sintomo, ossia uno dei seguenti:

Fibrillazione ventricolare documentata

Tachicardia ventricolare polimorfa

Storia familiare di morte improvvisa in età < 45 anni

ECG con onda j e sopraslivellamento convesso di ST in membri della famiglia

Inducibilità di tachicardia ventricolare con la stimolazione programmata allo studio elettrofisiologico

Sincope

Respiro agonico notturno

Prima di effettuare una diagnosi di Brugada è necessario escludere altre cause che possono determinare un aspetto ECGgrafico simile: le miocarditi, la displasia aritmogena del ventricolo destro, l’assunzione cronica di alcuni farmaci o semplicemente la pratica sportiva intensa.

La particolare alterazione ECGgrafica nel fenomeno di Brugada è secondaria a uno squilibrio tra le correnti ioniche entranti e uscenti dalle cellule cardiache; è determinata in genere da una ridotta funzione dei canali che conducono la corrente entrante del sodio. La presenza di una corrente uscente di potassio (Ito), che è particolarmente rappresentata a livello del tratto di efflusso del ventricolo destro e che non viene controbilanciata da quella del sodio, evidenzia l’aspetto ECG in questa particolare sede.

La somministrazione di farmaci bloccanti i canali del sodio accentua le alterazioni dell’ECG e provoca la transizione dal tipo 2 o 3 al tipo 1.

Il rischio aritmico è determinato da una marcata eterogeneità nella polarizzazione di aree miocardiche adiacenti, vista la non uniforme distribuzione dello squilibrio tra le correnti ripolarizzanti e depolarizzanti. Questo facilita fenomeni di rientro che provocano aritmie ventricolari polimorfe, che a loro volta possono degenerare in fibrillazione ventricolare e arresto cardiaco.

Il test con farmaci bloccanti i canali del sodio

Se si ha un sospetto ECGgrafico di fenomeno di Brugada, anche nei familiari dei pazienti colpiti è stato proposto di eseguire un test provocativo con farmaci bloccanti i canali del sodio, che possono portare alla manifestazione di un quadro conclamato e alla diagnosi. Sarebbe razionale somministrare un farmaco che riduca la funzione del canale di cui già si sospetta un ridotto funzionamento, accentuando lo squilibrio con le correnti ripolarizzanti. I farmaci generalmente somministrati sono la flecainide, l’ajmalina, la procainamide ev. Generalmente si eseguono questi test in regime di ricovero in day hospital: previa costante monitorizzazione elettrocardiografica, si procede con l’esecuzione di un’infusione della durata di 10 minuti ed una successiva osservazione di ulteriori 10 minuti. Nel caso in cui il test risulti positivo e quindi ci sia l’eventuale necessità di ulteriori accertamenti, la degenza potrebbe essere prolungata.

Lo studio elettrofisiologico

Non per tutti i pazienti colpiti dal fenomeno di Brugada esiste un elevato rischio di morte improvvisa. Lo studio elettrofisiologico è stato proposto per testare la vulnerabilità aritmica ventricolare in pazienti con familiarità per morte cardiaca improvvisa, con pattern diagnostico spontaneo. Nel caso in cui il test risulti positivo per aritmie ventricolari pericolose, viene proposto il posizionamento di un defibrillatore impiantabile (ICD).

Trattamenti

L’unica terapia per cui esiste una prova di efficacia è il posizionamento di un defibrillatore impiantabile; viene proposto a pazienti sintomatici nei quali è presente un pattern di tipo 1, sia spontaneo che determinato da somministrazione di farmaci bloccanti i canali del sodio, e a pazienti nei quali si manifestano sintomi come sincope, respiro agonico notturno, lipotimie, una volta escluse tutte le cause non cardiache.

I pazienti asintomatici nei quali è evidente un pattern ECG Brugada spontaneo dovrebbero essere sottoposti a uno studio elettrofisiologico e, in caso di positività per aritmie ventricolari maligne, dovrebbero ricevere un defibrillatore impiantabile.

Se la terapia con defibrillatore impiantabile o le aritmie ricorrenti con interventi ripetuti del defibrillatore risultano inaccessibili, una terapia farmacologica con chinidina (bloccante sia della corrente uscente di potassio sia della corrente del sodio) può limitare l’eterogeneità di polarizzazione e ridurre il rischio aritmico.

Sindrome di Wolff-Parkinson-White (WPW)

Sindrome di Wolff-Parkinson-White (WPW)

 

Che cos’è la sindrome di Wolff-Parkinson-White?

In condizioni fisiologiche la conduzione dell’impulso elettrico dagli atrii ai ventricoli avviene su un’unica via rappresentata dal nodo atrio-ventricolare e fascio di His. Il nodo atrio-ventricolare ha caratteristiche elettrofisiologiche di velocità di conduzione e tempo di refrattarietà tali da costituire un filtro in grado di proteggere i ventricoli dalla conduzione di impulsi atriali troppo rapidi e potenzialmente pericolosi. In alcuni casi esistono vie di conduzione dette accessorie (VA) tra atrii e ventricoli che possono essere localizzate in vari siti degli anelli valvolari tricuspidalico e mitralico. Per le loro caratteristiche elettrofisiologiche, simili alle cellule del muscolo cardiaco comune, queste vie accessorie non hanno la funzione di filtro tipica del nodo atrioventricolare, e in alcuni casi possono condurre gli impulsi ai ventricoli a frequenze molto elevate. Durante il ritmo sinusale una via accessoria si manifesta all’elettrocardiogramma con la pre-eccitazione ventricolare e la presenza di un’onda “delta”: la conduzione attraverso la via accessoria non è sottoposta a un rallentamento come all’interno del nodo atrioventricolare e l’intervallo PQ dell’elettrocardiogramma (che rappresenta appunto il percorso dell’impulso elettrico dagli atrii ai ventricoli) è più breve del normale (pre-eccitazione). Inoltre l’estremità ventricolare della via accessoria si inserisce nel muscolo cardiaco comune anziché essere in continuità con il sistema specializzato di conduzione: per questo motivo la depolarizzazione di una parte dei ventricoli si verifica in modo più lento, e si traduce in un aspetto elettrocardiografico detto onda “delta”.

Se la presenza di una via accessoria è correlata a episodi di palpitazione si parla di Sindrome di Wolff-Parkinson-White. Le palpitazioni possono dipendere da “aritmie da rientro”, che sono provocate da un corto circuito in cui l’impulso solitamente raggiunge i ventricoli tramite il nodo atrioventricolare e rientra negli atrii mediante la via accessoria percorsa in senso inverso. L’aritmia viene perpetuata fino a quando una delle due vie (nodo o via accessoria) risulta non essere più capace di condurre. In alcuni casi meno frequenti il circuito è percorso al contrario, ossia la via accessoria è utilizzata nel senso dagli atrii ai ventricoli, mentre l’impulso rientra agli atrii attraverso il fascio di His e il nodo atrioventricolare. In altri casi la via accessoria non direttamente parte del meccanismo che perpetua l’aritmia, ma può contribuire alla conduzione ai ventricoli di aritmie degli atrii (fibrillazione atriale/flutter atriale/tachicardia atriale). Se le capacità di conduzione della VA sono molto elevate (breve tempo di refrattarietà) la frequenza ventricolare che ne consegue può essere molto rapida (> 250 battiti al minuto) e mettere a rischio di aritmie ventricolari rapide e di arresto cardiaco.

Come effettuare la diagnosi

La diagnosi di sindrome di wpw è clinica ed elettrocardiografica. Da un punto di vista clinico è possibile che si manifesti con palpitazioni secondarie alle su menzionate aritmie da rientro; dal punto di vista elettrocardiografico risultano caratteristici l’accorciamento dell’intervallo pq e la presenza di onda delta.

Trattamenti

Il trattamento degli episodi acuti di aritmie da rientro nella Sindrome di WPW comprende farmaci che agiscono bloccando la conduzione tramite il nodo atrioventricolare, interrompendo uno dei bracci dell’aritmia. In caso di fibrillazione atriale condotta rapidamente attraverso la via accessoria, invece, bisogna evitare questi farmaci in quanto possono, in certi casi, incrementare la frequenza di conduzione ai ventricoli attraverso la via accessoria.

Se si manifesta una pre-eccitazione ventricolare e a prescindere dalla presenza di sintomi aritmici, è consigliabile sottoporsi a studio elettrofisiologico per investigare sulle capacità conduttive della via accessoria e la inducibilità di aritmie. Se la via accessoria ha elevate capacità conduttive e presenta il rischio di frequenze ventricolari elevate durante eventuali episodi di fibrillazione atriale, o quando si manifestano sintomi e aritmie da rientro, è opportuno procedere alla ablazione della via accessoria.

Con lo studio elettrofisiologico è possibile identificare la sede della via accessoria, che determinerà l’approccio utilizzato per l’ablazione: in presenza di una via situata nelle sezioni destre del cuore l’accesso avviene generalmente attraverso la vena femorale destra.

Per le vie sinistre saranno possibili un accesso venoso e successiva puntura transettale per passare dall’atrio destro all’atrio sinistro, oppure un approccio “retrogrado” tramite le arterie femorale e aorta. È la radiofrequenza l’energia che viene utilizzata per l’ablazione. Dopo un’ablazione efficace si potranno prevenire episodi di aritmia da rientro tramite la via accessoria e l’elettrocardiogramma non potrà più visualizzare l’onda delta. Generalmente l’efficacia a lungo termine dell’ablazione è molto elevata e supera il 95%.

Dopo un’ablazione efficace e in mancanza di altri tipi di aritmia o di cardiopatia, non risulta necessario procedere ad alcuna terapia farmacologica.